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Pubblicato il 11 Gennaio 2017 | da Valerio Caprara

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I Bastardi di Pizzofalcone – Prima puntata

E’ in linea con il canone e il gusto tipico Rai/Mediaset, è un giallo rigorosamente vintage, è per adesso premiatissimo dall’audience. Ma chiunque abbia deciso di concedersi una tranquilla escursione critica al termine della prima puntata della serie I bastardi di Pizzofalcone tratta dai bestseller di Maurizio De Giovanni e andata in onda lunedì sera s’è ritrovato sgraziatamente tirato per la giacca da manipoli di feroci tifosi e incontenibili duellanti.

Quello che non è successo al momento del (per noi dolorosissimo) the end di capidopera come The Young Pope o The Night of, succede adesso e in toni più virulenti che mai non solo per la maggiore eco suscitata dai canali generalisti rispetto a quelli a pagamento, ma anche perché l’evento equivale suo malgrado a un secchio di benzina gettato sull’incendio socio-politico-ideologico in corso nell’odiosamata metropoli. E dire che c’erano voluti anni per immunizzare le questioni inerenti all’arte e allo spettacolo dagli abusi del brutale contenutismo e delle strumentalizzazioni didascaliche: niente da fare, sembra che anche per le persone poco inclini ad andare al cinema o sedersi davanti alla tv indossando una casacca culturale, una fiction di genere crime-poliziesco ambientata a Napoli debba battersi all’ultimo sangue con gli exploit di Gomorra film e serie e portare acqua al mulino degli ammiratori o degli odiatori alzando il tiro ad alzo zero, va da sé, contro le icone dei rispettivi veri o presunti padrini mediatici. Tralasciando le battute più banali scivolate ai margini del legittimo show promozionale (“Napoli compare come sintesi dell’Italia, nel bene e nel male”, addirittura; oppure: “La bellezza di Napoli mi ha fatto accostare alla serie con l’entusiasmo di un bimbo nel paese dei balocchi: Ho amato la gente, il mare, la musica, il cibo, eccetto ovviamente certi aspetti”: ovviamente…), è forse il caso di prendere il coraggio a due mani e di valutare con il massimo di serenità possibile sia i confronti con la serie ispirata da Saviano, sia le autonome soluzioni espressive sull’unico piano ragionevole ovvero quello dell’efficacia narrativa e della qualità stilistica.

Si può dire d’emblée, per esempio, che l’impresa produttiva è stata coraggiosa e motivata, ragione per cui, limitandoci all’esito del primo episodio, il livello d’insieme regge il confronto con la scrittura di De Giovanni, professionista esemplare che, al di là del giudizio spettante agli esperti del macrocosmo giallo e noir, ha la dote primaria, giustamente prediletta dai fruitori, di sapere sempre dove puntare e quale risultato ottenere. Certo, per quanto ci riguarda, il ciclo del commissario Ricciardi sarebbe stato molto più attraente e quindi più complicato da trasporre in virtù della maggiore complessità dell’impianto visionario e dell’alone di strisciante psicosi storica ed esistenziale; mentre le peripezie dei poliziotti in apparenza equivoci, ma in realtà puliti si svolgono in una Napoli odierna volutamente decongestionata dai suoi virus più insinuanti e letali. In questo senso non ci sembra offensivo o polemico notare che mentre l’universo di Gomorra ha costruito le fondamenta di un’estetica linguistica specifica, del tutto degna dei serial dominanti americani, il taglio dei Bastardi sembra quello felicemente consolidato da una linea di prodotti che dagli sceneggiati pionieristici alla Durbridge di “Giocando a golf, una mattina” o alla “Giallo Club” con Ubaldo Lay arrivano sino a “La squadra”, a “Rocco Schiavone” e soprattutto ai trionfi di Camilleri e Montalbano. C’entra anche, naturalmente, la cruciale componente delle locations in cui si susseguono le azioni della serie diretta da Carlo Carlei: se è chiarissima la strategia drammaturgica di privilegiare i paesaggi “recitanti” del centro, alternando vicoli, per così dire, pittoreschi e scorci marcatamente borghesi ed eleganti, ci ripugna alquanto la forzatura di ritenerla contrassegno di un progetto mirato ad avversare l’opzione di Sollima & co. d’immergersi sino all’ultimo respiro nelle lugubri aeree periferiche soggiogate dal potere criminale in cui nascono e muoiono i Ciro Di Marzio, i Salvatore Conte o i Pietro Savastano. E’ ovvio, infatti, che a Napoli come in tante altre megalopoli postmoderne convivano entrambi gli habitat e qualsiasi deduzione esegetica dovrebbe misurarsi solo e unicamente con la forza mitopoietica sprigionata dall’equilibrio tra rappresentazione e creazione.

Liberandosi dalla succitata ragnatela dei derby artistici prefabbricati, resta da verificare la scorrevolezza delle chiavi che arrivano per prime ad aprire cuore e mente degli spettatori. Il cast, innanzitutto, che sceglie anch’esso una strada alquanto divergente dalla selezione iperrealistica di “Gomorra”; nel primo episodio dei “Bastardi”, in effetti, cominciano a emergere le performance di attori noti e collaudati nonché nutriti dal genius loci che devono confrontarsi a loro rischio e pericolo con le esigenze esplicative di un puzzle che preferisce chiaramente le aperture panoramiche alle investigazioni e sembra chiudersi di malavoglia in una soluzione finale come obbligata o frettolosa… Così, se è facile constatare la continua crescita di Massimiliano Gallo e la discrezione con cui Gianfelice Imparato e Francesco Paolantoni accarezzano le sfumature del copione, capita che i giovani Simona Tabasco e Antonio Folletto sembrino più sciolti rispetto ai superprotagonisti Alessandro Gassmann e Carolina Crescentini inopinatamente alquanto inamidati e scolastici. Dove, francamente, ci sembra che per ora davvero scricchioli la serie è proprio il taglio della regia. Sia pure stimando Carlei sin dal lontano quanto folgorante esordio, infatti, non è facile capire perché abbia esagerato con l’uso del grandangolo, del “green screen” per le riprese in interni e del filtro che ovatta un numero eccessivo d’inquadrature. Non resta che aspettare il prosieguo delle avventure di questo ispettore vagamente attraversato dalla brusca malinconia del gaddiano Ingravallo diretto e interpretato dal grande Germi di “Un maldetto imbroglio”. Che quando uscì, nel ’59, non sembra avere provocato astiose risse sul bene o il male fatto all’immagine di Roma.

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