Pubblicato il 22 Maggio 2020 | da Valerio Caprara
0Georgetown/Magari
Mancherebbero solo tre settimane alla riapertura delle sale, ma non è facile crederci tanto è vero che nessuna distribuzione ha ancora annunciato un debutto tradizionale; succede, così, che in questo molesto e prolungato stand-by continuino a tentare la sorte sulle piattaforme tv a pagamento numerosi film programmati per carriere ben più ambiziose. Come, per esempio, “Georgetown” diretto e interpretato da Christoph Waltz, il colonnello nazista di “Bastardi senza gloria” che manco a dirlo ha scelto per il suo esordio dietro la macchina da presa un soggetto eccentrico e spiazzante già dall’epigrafe in bella mostra sui titoli di testa: “Questa storia non pretende di essere vera, ma si ispira a fatti realmente accaduti”. Tramandato da un’inchiesta del “New York Times Magazine” del 2012, il ruolo del protagonista gli sta, per la verità, a pennello perché la sua comprovata abilità nel destreggiarsi in modi affettati, espressioni sornione e voce contraffatta aderisce dalla prima sequenza all’ultima alle “imprese” di un certo Ulrich G. Mott che si aggira a Washington nei piani alti della diplomazia assumendo diverse identità e attribuendosi qualifiche abusive in un crescendo di raggiri e menzogne. Già presunto stagista di origine tedesca, poi fondatore di una nebulosa ONG e persino alto ufficiale delle Forze speciali irachene, l’ometto aggancia la novantunenne giornalista di grido Elsa (Redgrave) che resta facilmente impigliata nella rete del suo corteggiamento brillante e servizievole: una volta sposati, però, i quarant’anni di differenza insospettiranno tutti e in particolare Amanda (Bening), la figlia di Elsa, fino ad arrivare all’epilogo che, purtroppo, lascia sconcertati gli spettatori più dei personaggi. Sei capitoletti in forma di commedia nera sull’arte del falso e sulla mitomania delle apparenze che ricordano molto alla lontana titoli culto come “Re per una notte” e “Prova a prendermi”, ma che finiscono col restare impressi solo per i duetti tra il magnifico istrione austriaco e l’immensa Redgrave in grado di cesellare i dettagli della trasformazione di una vecchia trasandata in pimpante gentildonna sedotta dal miraggio di un colpo di coda della vita.
Un secondo esordio porta alla ribalta “Magari”, l’opera prima di Ginevra Elkann che inaugurò suscitando qualche mugugno il festival di Locarno dell’anno scorso a causa del nome della regista e co-sceneggiatrice. Saremmo ipocriti a non considerare, per così dire, avvantaggiato l’esordio della terza dei nipoti di Gianni e Marella Agnelli, nati dal matrimonio di Margherita con Alain Elkann (in seguito separatisi) e dunque sorella dell’erede dell’impero John e dell’ineffabile Lapo; però non c’interessa tuffarci nella mischia tra sfacciati adulatori e furiosi odiatori (c’entra ovviamente il fatto che la famiglia dei più noti industriali italiani abbia oggi un ruolo dominante nel settore editoriale) per cercare, invece, di soppesare a prescindere le ragioni poetiche e la coerenza drammaturgica dell’ennesimo referto dei traumi provocati negli adolescenti e i bambini dal divorzio dei genitori che spesso li costringe, per di più, alla convivenza con i partner subentrati della ex coppia. Ribadendo che le memorie personali e familiari, se non trattate con uno sforzo creativo eccezionale (come, per esempio, nel capolavoro “Roma” di Cuaron) si traducono spesso in sceneggiature ad alto rischio di banalità e retorica, diremmo che la cronaca della vacanza invernale in una villetta di Sabaudia di tre ragazzini appioppati dalla mamma in attesa a Parigi di un altro figlio dal secondo marito, a un padre squattrinato, scombinato, egotista e riluttante (interpretato peraltro molto bene da quell’ottimo attore che è Scamarcio) appare un compitino bel strutturato ma prevedibile, pudico ma piatto, diligente ma nonostante il sincero trasporto sentimentale mai davvero emozionante. Tra il vissuto e il romanzato prevale a poco a poco lo stesso schema che film e letteratura nazionali hanno perlustrato in lungo e in largo e talvolta con esiti importanti (basti pensare al classico neorealista “I bambini ci guardano”, a “Il ladro di bambini” di Amelio o a “Incompreso” di Comencini), persino un po’ peggiorato dal ricorso a sequenze ciclostilate come quella della canzonetta intonata a squarciagola nel corso del fatidico viaggio in auto. Anche gli spunti potenzialmente trasgressivi (come il rapporto vagamente morboso nei confronti dell’introverso figlio maggiore abbozzato dalla segretaria-amante del padre interpretata dalla Rohrwacher) non vengono sviluppati e l’autofiction finisce per bastare a se stessa rendendo inoffensive persino le acmi in cui il disagio dovrebbe sfociare in disperazione e rabbia meno convenzionali.
GEORGETOWN
DRAMMATICO – USA 2019 **
Regia di Christoph Waltz. Con Christoph Waltz, Annette Bening, Vanessa Redgrave, Corey Hawkins, Noam Jenkins
MAGARI
DRAMMATICO – FRANCIA/ITALIA 2019 *
Regia di Ginevra Elkann. Con Riccardo Scamarcio, Alba Rohrwacher, Benjamin Baroche, Brett Gelman, Céline Sallette, Ettore Giustiniani