Fuori
Sommario:
2.8
La strepitosa interpretazione di Matilde De Angelis costituisce il cuore selvaggio di “Fuori”, il film di Mario Martone che condensa due romanzi di Goliarda Sapienza –L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio– con una serie di flashback che ne riproducono la duplice componente letteraria e visionaria. S’inizia nel 1980 con il soggiorno in carcere che toccò alla cinquantacinquenne scrittrice, catanese di nascita ma affermatasi a Roma come attrice di teatro e di cinema, in conseguenza del furto dei gioielli di un’amica poi venduti a un banco dei pegni usando la carta d’identità della cognata. Valeria Golino s’immedesima nel ruolo autobiografico di un’esperienza estrema che lascerà balsami e ferite in parti uguali: proprio grazie al rapporto con alcune detenute che Goliarda riesce a instaurare tra le sbarre, ma anche quando saranno rimesse in libertà, ci si può infatti avvicinare alla natura anticonformista, polimorfica e inafferrabile dell’io narrante… Per lei, in effetti, il carcere non costituisce una forma di “espiazione” sociale, bensì l’oggetto di una quête, un tentativo di rivelare al mondo esterno la caratura delle proprie vicissitudini e di assumere un punto di vista più nitido e obiettivo su di esse; mentre la personalità della politicizzata ed eroinomane Roberta, appunto la De Angelis, l’affascina e la turba fisicamente e psicologicamente senza però indurla a precipitare nello stesso abisso. Al centro del film riesce a stagliarsi, così, l’aspro contrasto tra il culto del dubbio che potrebbe portare al suicidio intellettuale e quello dell’antagonismo ideologico che porta sicuramente alla sterilità esistenziale.
A Cannes è dunque passato un film di grande maturità perché Martone, supportato dalla minuziosa essenzialità della fotografia di Paolo Carnera, utilizza l’emotività dei personaggi -tra cui coglie nel segno anche la grinta alla Gabriella Ferri di Elodie (esplicitata quando le ex galeotte cantano “Sinnò me moro” sotto le mura di Rebibbia)- per fare capire senza didascalie di comodo il perché di questo sentirsi “dentro” anche quando si sta fuori. Il carcere, insomma, può funzionare per drammatico ma non infondato paradosso da funesta tentazione -non troppo diversamente da quanto succede in ospedale- di aggrapparsi alla gloria, alla miseria e alla verità della vita in contrapposizione alla finzione e all’ipocrisia dell’ordinario stare al mondo. Ed è un punto a favore del film trovarci notevoli affinità con un grande film dimenticato come “Nella città l’inferno” di Renato Castellani, tratto nel 1959 dal romanzo Roma, via delle Mantellate di Isa Mari, basato sulla personale esperienza dell’autrice che era stata rinchiusa in quel carcere per 8 mesi e caratterizzato da quello che fu definito dalla critica che un match alla pari tra la Masina e la Magnani. Nel caso odierno la strategia o ancora più precisamente la geometria delle inquadrature -a tratti scompaginata da incursioni nella sensualità come nella doccia a tre, in cui l’accenno lesbico è opportunamente sobrio- consente al regista napoletano di fronteggiare qualche lungaggine e qualche borbottio dei dialoghi e di scongiurare i relativi cali della suspense. Come dimostra il cruciale faccia a faccia del finale alla stazione, colto come di sguincio tra le prospettive di binari e marciapiedi, in cui Valeria e Matilde, esattamente come avevano fatto le due dive all’antica italiana nel film di Castellani, ingaggiano uno spietato, ma nello stesso tempo amorevole duello cercando ciascuna a suo modo di porre rimedio a un tragico destino d’autodistruzione.



