Pubblicato il 6 Ottobre 2016 | da Valerio Caprara
0Rubando bellezza
E’ naturalmente un’ottima notizia quella che registra la sempre più impetuosa affermazione dei documentari non più parenti poveri, bensì declinazione linguistica preziosa del cinema di finzione. E se il rischio è che si faccia una certa confusione tra le ormai copiose offerte (che non è detto siano tutte allettanti e necessarie), l’interesse del pubblico è destinato a rafforzarsi enormemente quando viene sollecitato da titoli del livello di Rubando bellezza diretto e prodotto da Fulvio Wetzl, Laura Bagnoli e Danny Biancardi che – presentato con grande successo lo scorso luglio a Trieste e pronto a iniziare un lungo percorso nelle sale selezionate di tutt’Italia – offre l’eccezionale possibilità d’abbandonarsi all’analisi dettagliata, eppure in un certo senso romanzesca di una famiglia straordinaria come quella dei Bertolucci. In effetti nelle immagini sapientemente montate (materiale di repertorio, filmini familiari, spezzoni d’interviste e programmi tv) la storia psicanalitica del ramo maschile dei Bertolucci finisce con l’assomigliare all’esplorazione di un territorio eccelso, vivido, terso della creatività italiana: concentrata nei luoghi d’elezione e poi via via diramata nella straordinaria vastità di stimoli che hanno caratterizzato la storia dei tre artisti e dei congiunti più intimi.
Tutto parte, ovviamente, dal padre Attilio, uno dei poeti italiani più importanti del Novecento che ha educato i figli nel segno di un rapporto panico, vibrante, stupefatto con gli slanci, le sfide e le inesorabili derive dell’umana esistenza, soprattutto tramandato dal fluviale romanzo in versi liberi La camera da letto che insegue e interpreta i destini dei Bertolucci sullo sfondo dell’Appennino tosco-emiliano, tra Casarola di Monchio e Baccanelli di Parma. E’ emozionante rivedere il tremulo maestro mentre non ripete, bensì rivive letteralmente i suoi versi facendone risuonare echi segreti e misterici, riflessivi e febbrili e infine offrendo all’invadenza della macchina da presa la migliore versione possibile della religione letteraria del proustismo. Nasce proprio dal maestro, così, la tendenza a “rubare” la bellezza di un mondo effimero per poterla renderla stabile e diffusa che poi, in estrema sintesi, serve a caratterizzare il percorso di Giuseppe e Bernardo. Il primo, precocemente scomparso, ha scelto di sfuggire alla morsa di padre e fratello per ritagliarsi un’identità estremamente intensa, sperimentale e periferica in apparenza, ma poi in grado di accendere passioni popolari travolgenti come nel caso dell’iniziazione e il lancio cinematografici di Benigni. E al proposito è utile ricordare – condotti per mano dagli autori che hanno lavorato in maniera consentanea ma del tutto autonoma – che il rimpianto Giuseppe ha dato un forte contributo allo scandaglio delle controverse circostanze della morte di Pasolini, proprio l’amico di famiglia che promosse l’approdo al cinema di Bernardo.
L’unico oggi vivente, il magnifico demiurgo di tanti capolavori, incide, infine, da par suo il bisturi nella sua e nostra nostalgia senza, però, rinunciare a dimostrare quanto sia inevitabile per il poeta, e forse non solo per lui, disfarsi un giorno della figura paterna. Lo aveva capito benissimo Attilio che, nonostante l’innato pudore, dopo aver parlato dell’opera del figlio una volta gli si rivolse con un guizzo d’affettuoso sarcasmo: “Sei furbo tu. Nei tuoi film mi hai ucciso tante volte, senza mai andare in prigione”.