Editoriali

Pubblicato il 16 Aprile 2018 | da Valerio Caprara

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Cannes come Fort Apache

L’ultimo segnale controverso, si sa, riguarda la (forse) mancata selezione del film di Sorrentino. Ma se volessimo allungare il tiro e sintetizzare in un titolo il nebuloso stato di salute del più importante cinefestival del mondo penseremmo a Cannes Fort Apache. Perchè se è pur vero che nessuno può scippare ai francesi la consolidata tradizione del marchio abbinata al fulgore ammaliante della Croisette, una serie di scelte strategiche, impennate ideologiche e schermaglie mediatiche rischiano sul serio da qualche anno di fare assomigliare la kermesse primaverile cara ai cinèfili a un fortino assediato dai cambiamenti epocali dell’industria dell’intrattenimento e deciso a custodire sino all’estremo sacrificio un culto ogni giorno che passa impoverito di adepti. Qualcuno dei festivalieri di lungo corso tende a darne la colpa al potente delegato generale Thierry Frémaux, un monumento di competenza purtroppo gravato da tutti i vizi degli intellettuali d’oltralpe (supponenza, sciovinismo, fanatico specialismo) che peraltro fa il suo mestiere macerandosi nel tentativo di non fare spegnere ulteriormente la passione per l’ex arte chiave del Novecento. Sta di fatto che nella conferenza stampa che ha appena rivelato a un sempre meno eccitato parterre l’elenco dei titoli che gareggeranno per la Palma d’oro si è sperperato un quarto d’ora sul “rivoluzionario” provvedimento che probirà agli invitati di fare selfie mentre procedono o stazionano sul tappeto rosso. Per salvare il cinema, insomma, la grandeur di Cannes dovrebbe ricorrere a tali mezzucci anche se, scorrendo al volo il deprimente elenco dei film arruolati, viene subito da pensare che l’aborrita pratica quantomeno avrebbe fatto ottenere una maggiore copertura sui social. Il tappeto rosso è, infatti, facciata e immagine, quindi se ne deve parlare altrimenti è inutile o addirittura dannoso come sostengono i numerosi ossessionati dai pericoli e le lusinghe della mondanità. Senza parlare dell’abolizione delle proiezioni anticipate per la stampa, escogitata anche per evitare il malumore dei produttori che non di rado vedono il proprio film incalzato anzitempo dalla furia sbracata dei blogger di cattivo umore.

Il problema ben più spinoso è quello costituito dalla crociata contro i film prodotti da Netflix, capofila più agguerrito dei network che ormai producono titoli ambiziosi e competitivi destinati, però, a essere trasmessi solo sulle proprie reti. Giá l’anno scorso, infatti alcuni cineasti devoti alla “purezza” della distribuzione e visione nelle sale avevano minacciato il boicottaggio, ma per l’imminente edizione Frémaux ha indossato i panni del barricadero sancendo la loro perentoria esclusione dal cartellone. Naturalmente è utile sapere che il suo non é un embargo dettato dal puro principio perchè è stato spinto a decretarlo dalle pressioni degli esercenti francesi, per i quali le leggi di settore prevedono un sistema integrato d’investimenti, obblighi e privilegi. A niente sono dunque servite le proteste del boss di Netflix Sarandos contro il cambiamento delle regole di ammissione in nome dello spirito di qualsiasi festival del mondo teso a garantire la chance di tutti i film a farsi scoprire da tutti i pubblici. Sulla querelle, peraltro, incombe una minaccia terribile per il destino del cinema: la trasformazione dei festival da luoghi “pagani” di celebrazione e promozione dell’arte popolare per eccellenza in sacrari arroccati in difesa dalla volgarità del mondo che cambia. Intanto, per concederci un brivido nazionalistico, immaginiamo che i vertici della Mostra di Venezia, reduce da cartelloni vincenti nonchè ormai orientata a programmazioni molto più glamour, stiano fregandosi le mani allegramente.

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