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Pubblicato il 11 Novembre 2023 | da Valerio Caprara

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Fellini a trent’anni dalla scomparsa

Al trentennale della morte del maestro riminese, di una cosa possiamo forse essere certi: perché non possiamo più dirci felliniani. Intendiamoci, mai come in questi anni meravigliosi e putridi il termine “felliniano” è stato parimenti alla portata: dal punto di vista antropologico e societario un aggettivo simile non se lo sarebbero potuto inventare neppure Arbasino, Gadda e Pasolini, certi fenomeni visivi o rappresentativi non si sarebbero potuti tramandare grazie a un clic cosi facile e immediato e una marea di situazioni stupefacenti senza quest’”aiutino” diventato universale si sarebbero dovute descrivere con giri di nessi e di rimandi da far girare la testa ai migliori elzeviristi e vignettisti. I dubbi e i disorientamenti di coloro che non s’accontentano di un omaggio che nessuno ormai si nega –in ambito cinematografico, per esempio, si va da quello di “La grande bellezza” che ne scuote il grottesco alle radici per confrontarlo alla volgarità attuale a quello di “Il sol dell’avvenire” che pretenderebbe di piegarlo alle ubbie dell’egotismo personale- stanno nel fatto che le mostruosità messe in suadente e sorniona calligrafia da FF si sono trasferite pari pari nella nostra esistenza quotidiana, nei cosiddetti eventi che minacciano sempre più da presso la nostra fatica di comprendere e schierarsi, nei wathsapp che volenti o nolenti finiscono con coinvolgerci anche se –deo gratias- non apparteniamo al novero degli oscuri odiatori da social. È indubbio e non è uno scoop farci ogni tanto mente locale che “felliniane” sono le prodezze della chirurgia estetica che trasformano molti nostri simili in pupazzi travisati, le trasmissioni trash della tv pubblica e privata che eccitano i convocati a spararsi addosso gossip e insulti a tonnellate, le diatribe sportive, calcistiche in primis, che mettono l’analisi tecnica in un cantuccio per avventarsi come belve fameliche sulla carne e il sangue degli odi, le vendette, gli anatemi e le paranoie di personaggi proprio per questo scopo nutriti ed addestrati.

Sembra a prima vista, insomma, che Fellini, al di là del ricordo dei film che l’immaginario collettivo custodisce gelosamente incurante degli anniversari, sia sempre con noi e che la sua forza stia nell’adattarsi all’evolversi della storia del costume non solo nazionale. A favore di questa tesi consolante lavora, a dire il vero, il libro di Francesco Piccolo “La bella confusione” in cui, mettendo assieme le storie piccole e grandi delle riprese in contemporanea di due classici come “Otto e mezzo” e “Il gattopardo”, l’autore ci restituisce con aggraziata devozione le ire e le intuizioni, le gelosie e e le strategia di FF e Visconti, dandoci in pratica l’illusione che entrambi facciano, appunto, ancora parte di una memoria condivisa. Volendo strafare potremmo anche chiudere il discorso dandoci torto pensando che in fondo oggi nessuno –in ambito colto o popolare- ricorrerebbe con la stessa disinvoltura didascalica agli aggettivi viscontiano o antonioniano… Ciò detto, però, dobbiamo tornare sia pure con tristezza a quanto abbiamo sin dall’inizio ipotizzato. Al di là del bouquet di connessioni automatiche, tic gergali e riflessi pavloviani (ereditati) non possiamo dirci felliniani soprattutto perché FF non è stato soltanto il progenitore di quest’espressione limitante che per la verità è arrivata addirittura a sembrarci odiosa. Il fatto è che FF, nonostante la sua genialità senza tempo né scadenza, non è più di casa in un contesto d’ignavi sostanzialmente indifferenti alle ragioni della creatività che quando è assoluta può anche risultare sgradita o intemperante. Quello spirito di libertà, di cui è stato uno dei massimi esponenti a livello artistico made in Italy, è diventato infatti un termine inadeguato a fronteggiare le preponderanti schiere di faziosi e schierati, di predicatori opportunisti e arcigni guardiani del politicamente e sessualmente corretto.  

     

         

 

 

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