Recensioni

Pubblicato il 17 Maggio 2018 | da Valerio Caprara

4

Dogman

Dogman Valerio Caprara
soggetto e sceneggiaturaa
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario: Misero e mite tosacani di borgata, occasionalmente spacciatore, coltiva solo due amori, quelli per la figlia adolescente e i cani. Bullizzato senza pietà da un selvaggio delinquente di borgata e finito in galera a causa dell'ennesima angheria di quest'ultimo, arriverà a concepire e praticare una mostruosa vendetta.

4.5


L’oscura pulsazione di un non-luogo dove le persone possono al più sopravvivere. Edifici che sembrano disabitati anche quando non lo sono, strade sterrate, spiagge luride, luci che brillano solo all’alba, locali come buchi aperti sul nulla, recinti e muri scrostati, un mondo di discarica, una latrina da cui non è possibile tirarsi fuori. Il film di Garrone non è un sado-thriller qualunque o un report di cronaca nera dalle venature splatter, né tantomeno un saggio autoriale improntato a una morale consolatoria oppure (fa lo stesso) sociologica: “Dogman” è un racconto di morte che ha per protagonista il male, quello che contagia, ammala, fa diventare i buoni cattivi e viceversa, si trasforma fatalmente in vendetta e sembra non avere senso finché non ne acquista uno nella logica della narrazione.

Garrone, grande pittore di anime, assume ancora una volta come base del suo cinema lo stupore di fronte all’orrore e sembra stavolta procedere in sintonia con le tesi di Salvatore Natoli esposte nel saggio L’animo degli offesi e il contagio del male: <<Certo, il male è pervasivo, ma chi lo compie ne è responsabile e non solo di quello che fa, ma –peggio- delle conseguenze… Ogni atteggiamento reattivo replica il misfatto, non lo riscatta>>. Il noir, che dell’atroce caso del “canaro della Magliana” riprende solo i dati principali, è sorretto dalla straordinaria resa del neoattore Marcello Fonte che s’immedesima nel brutto, fragile, miserabile eppure mite protagonista, confinato nelle brutture della periferia con l’unica consolazione dell’amore per la figlia e per i cani. “Dogman”, tuttavia, non insiste molto sulla trama perché la stessa è disseminata in decine di minimi, accuratissimi tocchi, nell’alternanza di campi lunghi e primi piani, nella fotografia che trova inquadrature assomiglianti a quadri di un Hopper post-atomico, nei flussi di cocaina che scandiscono il tragico rapporto di Marcello col brutale ed erculeo malavitoso Simoncino trasformatosi in persecutore personale.

La sensazione d’angoscia si fa di sequenza in sequenza più palpabile componendo un crescendo di sopraffazione che rende Marcello libero solo quando s’immerge in tenuta da sub con la figlia nelle profondità del mare, favorendo in questo modo il dispiegarsi di una vera e propria sinfonia della paura, la stessa che può intravedersi negli insondabili abissi dei comportamenti animali. L’uggiolio del cagnetto si trasforma nel ringhio spaventoso del pitbull da combattimento quando scatterà la trappola messa in atto da Marcello illuso di liberare una buona volta non solo se stesso, ma anche il quartiere, la città, il mondo dall’odioso stupratore. Il sentimento finale, riservato a spettatori dal cuore forte, trascende così l’atto criminale per incarnarsi nella più agghiacciante metafora cristologica che si possa immaginare.

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