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Pubblicato il 19 Dicembre 2016 | da Valerio Caprara

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Dino Risi Forever

Apparirà strano agli spettatori e gli specialisti più giovani, però riconoscere l’importanza di Dino Risi è diventato ovvio, se non doveroso solo negli ultimi anni. Non si trattava, peraltro, di un semplice malinteso critico, perché nonostante la sua mitica nonchalance e il suo continuo auto-ridimensionamento è notorio come il più geniale e anticonformista dei maestri della commedia all’italiana abbia costituito a lungo una spina nel fianco per i presunti piani alti della cultura cinematografica. Ma se in questo senso le celebrazioni che onorano il centenario della nascita del cineasta che cadrà il prossimo 23 dicembre possono contare su un’estesa e puntuale revisione bio-bibliografica, a cominciare dalla voce che gli dedica la “bibbia” del Dizionario Biografico Treccani, un contributo davvero inedito e importante è offerto dal documentario di Fabrizio Corallo “Dino Risi Forever” in cartellone il 16 e il 21 al MoMa di New York nell’ambito della retrospettiva organizzata da Cinecittà Luce. Corallo, giornalista di lungo corso nonché studioso e amico personale di Risi, aveva già realizzato con Francesca Molteni nel 2006 “Una bella vacanza” –che in omaggio alla ricorrenza a sua volta andrà in onda il giorno di Natale sulla Rai-, esaustivo identikit storico e critico del (finto) cinico e (vero) politicamente scorretto autore di titoli culto come “Il sorpasso”, “I mostri” o “Profumo di donna”.

Nel nuovo lavoro la partitura risulta ancora più incisiva e brillante perché è Risi stesso a impersonare una sorta di virgilio di se stesso, indirizzando, sia pure con aria arguta e blasé, il pubblico nel centro operativo del proprio impianto stilistico: i folgoranti flash satirici sul costume in evoluzione dal dopoguerra agli anni prima del boom economico e poi del riflusso; gli esilaranti aneddoti di set e di vita che si trasformano in patrimonio drammaturgico o viceversa; le significative e mai cerimoniose testimonianze sul suo lungo e fecondo percorso artistico rese da magnifici complici/colleghi come Scola, Monicelli o Trintignant.

L’inconfondibile voce del regista, ex medico mancato e milanese conquistato ma non troppo dall’indolente “train de vie” romanocentrico, risuona, così, come il più potente degli antidoti all’imbalsamazione che in casi simili tocca alle icone nazionali di qualsivoglia ambito; mentre dagli spezzoni dei film fuoriesce il nozionistico ammiccamento cinefilo e si sprigiona, invece, il fascino della qualità segreta del cinema, quella di fare vivere molte vite agli spettatori che devono accontentarsi solo della propria. Nessun episodio professionale, nessun film portato a termine, nessun premio ricevuto o mancato, nessun profilo di colleghi, congiunti, amici, amanti o datori di lavoro rivive nel consueto format essiccato dalle ingiurie del tempo; sembra, al contrario, che il talento di godersi la vita, l’attenzione per i dettagli minimalistici, il disprezzo per i fanatismi politici, la delicata vena poetica coltivata con estrema pudicizia sprizzino dai ricordi con la stessa imprevedibile vividezza tramandata dalle trame delle sue commedie e dagli show dei suoi mattatori, maschere doc di un paese sempre in bilico tra la farsa e la tragedia. Dalla fuga tra le montagne svizzere per sfuggire ai violenti spasimi della guerra e trovare la più radiosa delle mogli alla Cinecittà appena ripresasi dalla lunga apnea produttiva e piena dei fermenti che nutrivano sia i capolavori neorealisti, sia le pazze scorrerie di Totò, sia il rigoglio dei generi popolari alla riconquista del box-office con le storie di antichi eroi greco-romani, eroine melodrammatiche o cowboy autarchici. Il cinema di Risi sta tutto in questo intrico inseparabile di “alto” e “basso”, nelle sublimi performance dei Sordi e dei De Sica come nelle gesta dei bulli “poveri ma belli”; nella cialtroneria riscattata dall’irrefrenabile gioia di vivere dei Gassman e dei Tognazzi come nelle sarabande goduriose dei filmetti a episodi celebranti in barba alle sedi di partito e alle parrocchie l’erotismo non “motivato” da alcun fine; nelle epopee canzonettistiche di “L’ombrellone” o “Straziami, ma di baci saziami” come nei deliziosi ricami giallorosa di “Operazione San Gennaro” e i match senza vincitori né vinti tra “anime perse” e “fantasmi d’amore”. Così in “Dino Risi forever” l’ingranaggio a ritroso del documentario non si limita più a triturare quello che anche Wikipedia può fornire nel tempo di un clic, bensì si dirama in tante sequenze o addirittura fotogrammi di una galleria audiovisiva tanto più preziosa quanto meno pretenziosa e/o magniloquente. Chiunque sia interessato al destino dell’ex arte chiave del Novecento potrà, insomma, ricercarvi un perduto bagliore del cinema come “una bella vacanza”, proprio una delle irridenti espressioni più care a un uomo che detestava i monumenti in vita e li esorcizzava quando subentrava la malinconia della vecchiaia e il presentimento della fine.

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