Pubblicato il 23 Novembre 2017 | da Valerio Caprara
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Sommario: Le sommosse dei neri esasperati dal razzismo bianco che misero a ferro e fuoco Detroit nel luglio 1967. Un poliziotto sadico interpreta la repressione a modo suo, arrestando, tenendo in ostaggio, torturando e decimando un gruppetto di neri bloccati all'Algiers Motel.
2.5
“Detroit”: cinema verità che costeggia il cinema horror. Che la sessantacinquenne Kathryn Bigelow sia una regista di valore assoluto è un dato acclarato e può ribadirlo soprattutto chi l’ha individuata, amata e divulgata a partire dalla fine degli anni Ottanta (“Il buio s’avvicina”, “Blue Steel” e il capolavoro “Point Break”). Dopo i sei Oscar conquistati –prima donna a farlo nella storia del premio- con “The Hurt Locker” (2008), è entrata stabilmente nel novero dei maestri contemporanei, ma in quest’ultima prova –accolta positivamente alla recente Festa del cinema di Roma- non ritrova il top della compattezza narrativa e la padronanza stilistica che continuano peraltro a essere le sue caratteristiche migliori: “Detroit”, in effetti, spiazza e disorienta lo spettatore perché le tre distinte parti che lo compongono rivelano alla fine proporzioni squilibrate e, di conseguenza, qualità troppo differenti tra di loro.
Insieme all’attuale compagno di vita e scrittura Mark Boal, la bella, algida e tosta Kathryn vi ricostruisce le sommosse razziali che nel luglio 1967 misero a ferro e fuoco la città di Detroit, concentrandosi in particolare sulla tragedia accaduta all’Algiers Motel dove, a seguito di una stupida bravata, un gruppetto di ragazzi neri e due ragazze bianche furono arrestati da agenti della polizia e tenuti ingiustificatamente in ostaggio nel corso delle lunghe e drammatiche ore del coprifuoco. Nel primo atto gli scorci quotidiani, utili anche per presentare alcuni dei protagonisti, si alternano agli autentici spezzoni documentaristici e al seguito di assalti, saccheggi, risse, incendi, tentativi di pacificazione travolti dal contesto via via più ingovernabile: in pratica il marchio-Bigelow in purezza per un approccio ai fatti esaltato da un montaggio immersivo a livelli parossistici.
Si passa, poi, all’ora e mezza circa (la durata complessiva è di due ore e ventitré) in cui il sadico sbirro interpretato da Will Poulter, spalleggiato più o meno controvoglia dai colleghi, infligge ai prigionieri un crescendo di soprusi e sevizie pressoché insostenibile che finirà con tre morti –ma in totale se ne contarono 43 più un migliaio di feriti- e lo scandalo postumo affrontato da un famigerato quanto grottesco processo. La condanna del razzismo bianco ne risulta inasprita a livelli quasi mai visti (e pensare che certi fessi storcevano il naso sulla Bigelow perché “guerrafondaia”), però, purtroppo, l’overdose risulta controproducente e l’inevitabile effetto di saturazione e di malessere anestetizza lo spettatore oppure, peggio ancora, gli inocula il sospetto di un compiacimento modello “pornografia delle torture”. Tanto più che il film ha ancora in serbo il terzo movimento, consistente nel frettoloso epilogo in cui si raffreddano i toni e il ritmo, l’indignazione si tramuta in un vago psicologismo sulla sindrome dei reduci e all’impianto iperrealistico non giova la dicitura nei titoli di coda in cui si precisa fuori tempo massimo che molte delle vicende sono state ricostruite, per così dire, a mano libera.
DETROIT
Regia: Kathryn Bigelow
Con: John Boyega, Will Poulter, Algee Smith, Jacob Latimore
Genere: storico-drammatico. Usa 2017