Pubblicato il 11 Novembre 2021 |
da Valerio Caprara
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Contributo al fascicolo “IL NOSTRO TOTÓ” (allegato al quotidiano “Il Mattino”)
Da quando organizzai nel 1981 al Circolo della stampa in Villa comunale il convegno “Quale Totò per gli anni Ottanta” (titolo che non so ancora se considerare ridicolo o profetico), credo di avere scritto e pronunciato il nome dell’attore un numero di volte pari solo a quello dei congiunti stretti, gli amici più cari, il medico di famiglia e Francesco Totti. Una volta archiviato l’orgoglio per quel baldanzoso exploit cinefilo (da cui ricavai, peraltro, l’unico attestato di un signore che al termine dei lavori s’avvicinò per elogiare la mia giacca), uno strano sentimento è tornato nel corso degli anni a farsi sentire in decine di occasioni analoghe –mi limito a citare il convegno “Diagonale Totò” organizzato nel 2017 dall’Università Suor Orsola Benincasa e nello stesso anno l’indimenticabile serata della proiezione al teatro San Carlo della versione di “Miseria e nobiltà” restaurata dal CSC – Cineteca Nazionale-, quasi una forma di disorientamento, un rovello che tende a smorzare la provocatoria scelta di campo (Totò è meglio di Eduardo). É come se le mie opinioni al riguardo, sia pure convalidate da prove infallibili (imbattersi in uno spezzone di gag di passaggio e ogni volta non mollarlo per nessuna ragione al mondo ndr) s’imbattessero in una sorta di moleste transenne. Per portare a termine l’indagine è, in effetti, necessario superare la -chiamiamola così- fobia della condivisione: amando così tanto un’icona universale è inevitabile ritrovarsi sottobraccio a cultori con cui non prenderesti neanche un caffè. Non è un’operazione simpatica e neppure interessante per il lettore compilare liste di epurazione, però l’occasione è irripetibile per potere almeno ribadire che la sublime marionetta non ha nulla a che vedere con il compiacimento sbrodolato casalingo, quello sciovinismo consolatorio e assolutorio che continua secondo noi a danneggiare l’identikit passato e recente di Napoli. Eccoci, però, in questo modo ricacciati al punto di partenza perché un meccanismo in stile gioco dell’oca non perdona chiunque abbia la debolezza di dimenticare che tutto su Totò è già stato scritto e detto.
Basta, appunto, dare un’occhiata alla pila dei volumi, volumoni e volumetti radunati per l’occasione per essere nuovamente circonfusi dal suddetto sconcerto. Sui meriti da attribuire ai testi e i saggi di Goffredo Fofi –realizzati in singolare sinergia con la Faldini- è opportuno non sprecare più neppure una parola: Fofi non ha, infatti, “riscoperto” il principe De Curtis bensì ridato a un universo minato dall’estemporaneo, il frammentario e il futile la sua dimensione stabile, la sua conformazione originaria, la sua orbita geometrica. Attualmente i titoli sulla cresta dell’onda sono (giustamente) Totalmente Totò di Alberto Anile e Totò Kolossal di Ennio Bìspuri, summe conclusive di frequentazioni prolungate, riflessi di un’acribia moderna, amorevole e per certi versi impietosa (c’è persino l’elenco dei calchi, plagi, curiosità ed errori di ciascuno dei 97 film da lui interpretati). Ma mai come in questo campo dell’editoria è facile dimenticare: vale ancora, per esempio, come testo imprescindibile il Totò di Orio Caldiron uscito nel 1980, densissimo, intelligente e impreziosito da una meravigliosa prefazione del giovane Fellini, un “unicum” che fa purtroppo decadere di colpo molte rievocazioni successive. L’antidoto bibliografico, insomma, non funziona perché l’abbondanza è frastornante e non saprei giustificare l’assenza, che so, dell’altro libro di Caldiron Totò a colori di Steno. Il film, il personaggio, il mito, di Totò, vita opere e miracoli di Giancarlo Governi, di Totò sbanca a cura di Gianni Ambrosino e Aldo De Francesco e, perché no, dell’acrobatico volteggio sulle digressioni horror di Giuseppe Cozzolino e Domenico Livigni in La paura fa Totò. Per di più da questo magma straripante non fa, ahinoi, che riemergere l’equivoco fatidico, la questione regina, l’idea sbagliatissima della grandezza di Totò umiliata dalle sortite sullo schermo (mentre andrebbe salvato il curriculum teatrale rivistaiolo, anche se la maggior parte dei fan di questa tesi non riuscirono mai a vederlo dal vivo). Verrebbe a questo punto voglia di risfoderare la spada, indossare la corazza e riaffrontare in campo aperto i propugnatori del più ricorrente e più banale ritornello, d’inchiodare sulle proprie fandonie i recensori –a cominciare da Peppino Marotta, grande scrittore e pessimo critico cinematografico- che si espressero a ruota libera su un Totò “ospite furtivo, cugino povero, visitatore balbettante” del grande schermo, addirittura “attore massimo denigratore di se stesso” ovvero che “prostituisce il proprio talento senza rispetto di se stesso”, star del film comico in cui “tra pornografia e cattivo gusto, la battuta volgare, il lazzo scollacciato, il meschino doppio senso si specchia l’opaca noia del conformismo”. Prim’ancora di Fofi e Caldiron, però, erano insorti da par loro facendo piazza pulita di visioni così miopi e grossolane intellettuali come Mario Soldati, Oreste Del Buono, Vittorio Spinazzola e il capofila dei geni senza casacca Ennio Flaiano (“Totò non esiste in natura, non è vero; rappresenta la zona metafisica, non i caratteri, ma l’imponderabile, il grottesco, l’inverosimile; va cercato nel suo centinaio di film, non in uno solo, nella continua follia di una maschera che non fa della satira e tanto meno della sociologia, ma propone esclusivamente se stessa”).
In relazione a tale cospicuo e blindato tesoretto potrei pensare che è questa la ragione dello stallo, il motivo per cui esito a duellare con lo spirito tranchant di un tempo. Un flash, però, in extremis s’accende, la nebbia si dirada per un attimo e un’impegnativa verità viaggia sulla scia di una sola battuta, una semplice battuta rivolta dal mattatore al giudice di “Totò all’inferno”: “Vostro onore, mi oppongo! – A che cosa vi opponete? – Mi oppongo a tutto, a priori!”. Dunque, com’è logico, anche a quello che pensa e crede il devoto sottoscritto.
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