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Pubblicato il 13 Settembre 2020 | da Valerio Caprara

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Connery 90 anni

L’incubo peggiore sarebbe un saggio della scrittrice Michela Murgia sul tema del rapporto tra le Bond Girls e il #MeToo. Ma tant’è, in simili evenienze bisogna essere forti ed è meglio celebrare i novant’anni di Sir Thomas “Sean” Connery facendo capolino dal bunker dei cinefili. Acclarato, per esempio, che su Connery non è consentita alcuna discussione (nel senso che lo si ama o lo si adora), l’applauso a scena aperta può scattare in una duplice serie di occasioni: tra le righe dei dialoghi delle sette pellicole in cui interpreta il ruolo dell’agente segreto 007 oppure nelle anse dei titoli custoditi e protetti dal culto degli intenditori. Riguardo al primo caso basta ricordare quanto stabilito nel 1998 dal Guinness dei primati e cioè che la battuta più memorabile della storia del cinema sarebbe “Il mio nome è Bond, James Bond”, che supererebbe persino le frasi di “Via col vento” “Francamente me ne infischio” e “Domani è un altro giorno”: se, peraltro, il personaggio divenne in pochi anni dall’uscita nel 1962 di “Agente 007 – Licenza di uccidere” di Terence Young il più noto dell’era delle comunicazioni di massa, un mito del villaggio globale e l’oggetto di analisi di tipo semiotico, sociologico e psicoanalitico fu grazie alle interpretazioni o più precisamente le immedesimazioni dell’attore nato da genitori proletari al Royal Maternity Hospital di Edimburgo il 25 agosto 1930 che qualche anno più tardi Spielberg avrebbe definito “la star più sexy e maestosa della sua generazione”. Meno scontato è procedere nella seconda direzione, rovistando nelle sequenze dei film sfuggiti all’egemonia del Bond trasformato nel linguaggio quotidiano in una metonimia del mestiere di agente segreto e/o seduttore. Altro che icona marmorea: sono infatti tanti, raffinati e eclettici i ruoli che dimostrano come l’ex ragazzone soprannominato “Big Tam” il grosso Tom, appassionato di western (il nome d’arte Sean lo scelse dopo avere visto e amato alla follia “Il cavaliere della valle solitaria”), scelto non a caso da registi prestigiosi come Lumet, Hitchcock, De Palma, Huston per lo stile asciutto e la vigorosa espressività, sia stato molto più importante di quanto attesterebbe l’unico Oscar di migliore attore non protagonista conquistato nel 1987 per il ruolo del poliziotto irlandese Jimmy Malone del sontuoso “Gli intoccabili”. Ma qui bisogna contenersi perché l’elenco diventerebbe notarile: l’acme delle ambigue risse tra il virile Mark e la bionda cleptomane e frigida “Marnie”; l’avventuriero kiplinghiano che in coppia con l’altro irresistibile lestofante Michael Caine conquista un regno tra le montagne del Kafiristan a spese di un’ingenua tribù indigena (“Siete degli dei?” – “No inglesi, una specie di semidei”); l’invecchiato ma indomito Robin Hood al fianco della tenera Audrey Hepburn del meraviglioso revival della leggenda “Robin e Marian” firmato da Richard Lester in stato di grazia nel 1976; il medico scozzese di mezza età in vacanza in un paesino di montagna svizzero con la giovane nipote e amante di “Cinque giorni, un’estate”; il padre di Harrison Ford prima liberato dai nazisti e poi partito con lui alla ricerca del Santo Graal di “Indiana Jones e l’ultima crociata”…

Resta il fatto che il primato di Connery è adiacente alla filmografia, insediato com’è nell’estrema coerenza con cui è passato dallo schermo e il palcoscenico alla vita senza perdere carisma e nel contempo senza esibire i soliti tic delle celebrity ubriacate dai guadagni e dagli onori. Divo di prepotente avvenenza –descritto da Oriana Fallaci in un reportage del 1965 come “gigante segnato da rughe profonde come cicatrici e gli occhi grandi inermi indifesi… dalla mole davvero imponente, drammatizzata da spalle eccessive: spalle di un uomo che mangia molto, beve molto e fa molto l’amore”- peraltro nutrita anche con l’avanzare dell’età, il naturale appesantimento e la precoce calvizie dal fascino di un carattere complesso e una personalità basata su un mix di fragilità e grinta, si compiacerà certamente del titolo di Sir conferitogli dalla regina Elisabetta II nel 2002 “per l’importanza che ha rivestito sul piano internazionale nel campo cinematografico e socioculturale”, ma è facile immaginare che si senta più rappresentato dagli ideali dell’antirazzismo e l’abolizionismo della pena di morte, la militanza nello Scottish Nationalist Party a sostegno del separatismo scozzese certificata dalla campagna in prima persona sostenuta nel referendum del 2014 per la secessione dall’Inghilterra, le apparizioni pubbliche abbigliato col tradizionale kilt, il tifo per la squadra di calcio Glasgow Rangers nonché dal tatuaggio sul braccio destro del motto “Scotland Forever” che però non ha mai permesso che fosse visibile nei film. Addirittura ferrea, al contrario, è stata la riservatezza mantenuta in ambito sentimentale e familiare: sposato nel 1962 con la collega australiana Diane Cilento, ha avuto da lei il figlio Jason Joseph divenuto anch’esso attore benché di scarso rilievo; divorziato nel 1973, due anni dopo si è risposato con la pittrice francese Micheline de Roquebrune con la quale a tutt’oggi fila d’amore e d’accordo concedendosi poco e niente alle cronache mondane. Più che rivelazioni sono, in questo quadro abbastanza saldo, sobrie tracce di se stesso quelle che Connery ha lasciato fluire nel documentario “Memories of Me” (1988), nell’autobiografia forse autocensurata “Being a Scot” scritta con Murray Grigor e indirettamente nell’inevitabile nemesi delle maldicenze (“donnaiolo, taccagno e manesco”) disseminate nell’instant book scritto dalla ex moglie. Non è, però, per ritornare nella comoda dimensione del cinema che ci sembra di scorgere più nitidamente i ricordi, i sogni e i desideri di Connery nell’accurata tessitura del suo penultimo, indimenticabile protagonista, l’irascibile, misantropo, canuto scrittore di “Scoprendo Forrester” destinato a diventare padre putativo e maestro intellettuale di un sedicenne afroamericano fino ad allora interessato solo al basket. Chissà se qualcuno potrebbe ancora stupirsi di come il simbolo incarnato del lusso, il sesso, l’invincibilità, il cinismo –ancorché intrisi d’autoironia- abbia commentato il successo del film di Van Sant che aveva coprodotto: “E’ vero che sono sempre stato affascinato dalla letteratura e che, in fondo, una parte di me, forse la più creativa, avrebbe voluto sapersi esprimere attraverso la scrittura. Ma reputo questa storia una sorta di apologo che parla al cuore e all’intelligenza e rappresenta un preciso anello di congiunzione tra le generazioni, ma anche le razze”.  

 

          

 

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