Pubblicato il 9 Marzo 2019 | da Valerio Caprara
0C’è tempo
Sommario: Il quarantenne sovrappeso Stefano, romanista, malmaritato, di professione “osservatore di arcobaleni” e il tredicenne Giovanni, juventino, petulante, cinefilo, orfano altoborghese scoprono con disappunto di essere fratellastri e intraprendono un viaggio in auto attraverso l'Italia che gli scalderà il cuore e li farà crescere.
1.5
Parafrasando una celebre uscita di Godard a proposito di John Wayne potremmo suggellare così la recensione di “C’è tempo”: “come posso amare Veltroni per la passione, il culto, la bulimia cinefile e non amare il suo primo film di finzione che ne costituisce una sorta di distillato in purezza? Forse si tratta del fatto che il sessantatreenne ex uomo politico di massimo rango ha tramutato in fiaba universale, racconto per il pubblico, apologo didascalico tutto ciò che costituisce il proprio identikit: il veltronismo, in effetti, funziona benissimo per descriversi, tramandarsi e fondersi con i catecumeni, ma molto meno per diventare il pretesto di un esordio dalle ambizioni forti e la drammaturgia debole.
La sceneggiatura, in effetti, conta davvero poco per una collana di siparietti in tonalità agrodolce annodata da un “elogio della diversità” adattabile a tutte le interpretazioni possibili purché a conclusione edificante: non c’è da stupirsi, di conseguenza, che il modello del road movie punti su un’accoppiata di personaggi in partenza antitetici, il quarantenne sovrappeso Stefano, romanista, malmaritato, patito della musica anni Ottanta, di professione “osservatore di arcobaleni” (sic) e il tredicenne Giovanni, juventino, petulante, cinefilo, ricco altoborghese ma appena rimasto orfano a causa di una tragedia che ricorda quella toccata nella realtà a Paolo Sorrentino.
Il grosso e il piccolo scoprono nel prologo di essere fratellastri e per disposizione testamentaria il secondo è messo sotto la tutela (a pagamento) del primo, in modo da consentire al narratore di giocare all’infinito con le baruffe originate dalle rispettive differenze, peraltro tanto plateali da fare capire subito che a un certo punto si ricomporranno armoniosamente. Nel frattempo, tra un pensiero poetico e l’altro (“Quand’è che si smette di essere bambini?”), l’afflato, un po’ naif e un po’ no, del regista inonda la fragile vicenda con una cascata di riferimenti a cui è demandata la funzione di rievocare e omaggiare la storia del cinema italiano senza operare alcuna distinzione tra alto e basso, colto e popolare, impegnato ed evasivo. Se si è nella condizione di essere abilitati in materia e magari dell’umore giusto per mettersi alla prova, il divertimento non manca; senza potere, però, colpevolizzare gli spettatori a cui, invece, delle padellate in testa di “La grande guerra” o del cinema Fulgor di Rimini caro a Fellini, della pistola a pois di “Dillinger è morto” o della vestaglia portata dalla Loren in “Una giornata particolare” non importa un bel niente. Solo quando entra in scena nel ruolo di se stesso J.-P. Léaud, il mitico alter ego truffautiano oggi stropicciato settantaquattrenne, la sindrome da quiz si dissolve lasciando spazio finalmente a sentimenti un po’ meno ammiccanti ed emozioni un po’ più lancinanti.
C’E’ TEMPO
COMMEDIA, ITALIA 2019
Regia di Walter Veltroni. Con: Stefano Fresi, Giovanni Fuoco, Simona Molinari, Laura Efrikian