Pubblicato il 23 Settembre 2019 | da Valerio Caprara
0Burning – L’amore brucia
Sommario: Essere giovani a Seul tra città e campagna, ricchi e poveri, apocalittici e integrati. Un ménage a tre dai contorni misteriosi e minacciosi, una scomparsa inspiegabile, un sordo furore che innesca l'escalation di una gelosia destinata a sfociare in paranoia.
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L’impianto del film fa vibrare e appannare di continuo i contorni audiovisivi e nella conseguente mobilità di narrazione Lee Chang-dong trova la misura necessaria per farlo oscillare tra melodramma romantico, noir, detective story, inchiesta sociale o inasprita rilettura del cinema dell’incomunicabilità e l’alienazione di Antonioni. Di sicuro “Burning” è un capolavoro, ma come tutti i veri capolavori pretende uno stato d’animo e una predisposizione adeguati ovvero, in questo caso, la consapevolezza che l’accumulo di sospetti, indizi, enigmi e allarmi non risponde al solito compiacimento autoriale bensì all’oscuro senso di minaccia lasciato aleggiare volutamente fuori campo. Adattando, anzi dilatando il racconto del giapponese Murakami Granai incendiati(pubblicato in Italia nella raccolta L’elefante scomparso, ediz. Einaudi) il maestro sudcoreano trasferisce la ballata dei tre protagonisti nel paese di cui è stato anche ministro della cultura e del turismo per sottoporli a una lenta e crudele combustione alimentata in parti uguali da un sordo e indistinto furore e una lancinante follia d’amore che non lasciano scampo allo spettatore. Grazie, in particolare, alla strategia di uno stile affascinato dal non visto e il non detto in cui i fatti appaiono ambigui, i ricordi indecifrabili, i delitti inventati proprio come accade nei più sbrigliati trip mentali dei sognatori compulsivi.
Jongsu, silenzioso e quasi catatonico, sogna di diventare scrittore come Faulkner, ma è segnato dalle radici contadine e un padre violento attaccabrighe. Il coetaneo Ben è una specie di Gatsby perverso che viaggia in Porsche, vive in un quartiere di lusso e confessa di divertirsi a incendiare quando ne ha voglia le serre di plastica delle campagne di Seul. Haemi, invece, è la fanciulla smart che li coinvolge in un ménage a tre fondato sulle sabbie mobili della propria fantasia sovreccitata e menzognera: all’acme del primo movimento, però, dopo avere interpretato la bellissima sequenza in cui balla al tramonto a seno nudo sulle note di Miles Davis avvolta da volute di marijuana, scomparirà all’improvviso dalla loro vita. Gli amanti abbandonati, a questo punto, sono mossi sulla scacchiera dello schermo dal regista come pedine di un gioco hitchcockiano sul tema del doppio: cercando invano le tracce che Haemi ha cancellato o confuso, il passato diventa una terra straniera e Jongsu l’alter ego di Ben, la sua ombra rovesciata, il povero contro il ricco, l’inibito contro il nichilista, il redentore contro il peccatore. Lee Chang-dong, come premesso, prende tutto il suo tempo, scandisce un ritmo lento e ipnotico che mette a dura prova la soglia ormai bassissima dell’attenzione in sala e sceglie con una raffinatezza pari alla temerarietà di non darci mai la chiave per capire se sta trasfigurando un pamphlet sulla lotta di classe in Corea o cadenzando l’escalation di una gelosia destinata a sfociare nella paranoia. Più la ricerca s’estenua, più i duellanti sono condannati a sentirsi impotenti ed è esattamente in questo spazio allegorico che “Burning” riesce a farci percepire la crisi della postmodernità e condividere l’impossibilità da parte dei giovani di sottomettersi allo stato delle cose.
BURNING – L’AMORE BRUCIA
DRAMMATICO, COREA/GIAPPONE 2018
Regia di Lee Chang-dong. Con: Yoo Ah-in, Steven Yeun, Jeon Jong-seo, Kim Soo-kyung