Pubblicato il 29 Novembre 2018 | da Valerio Caprara
14Bohemian Rhapsody
Sommario: La vita spericolata e le apoteosi musicali della rock star Freddie Mercury e della leggendaria band dei Queen
2.3
Ancora prima dell’uscita “Bohemian Rhapsody” ha fatto il pieno mediatico mondiale per alcuni incidenti di percorso, tra cui quello increscioso del licenziamento in corso d’opera del regista Bryan Singer (poi revocato nonostante il terzo del film girato nel frattempo da Dexter Fletcher) causato da una gragnuola d’accuse postume di molestie sessuali. Inoltre, certo, il biopic della rock star nonché icona LGBT Freddie Mercury accorpato alla glorificazione dei Queen, una delle band più famose della storia, meritava lo spasmodico impegno della 20th Century Fox decisa a farne –come sembra si stia già avverando- il kolossal musicale di maggiore successo nella storia del cinema. Purtroppo, però, sia il fan incrollabile, sia lo spettatore occasionale si troveranno secondo noi al cospetto di un prodotto ordinario sul piano stilistico, ridicolo e ipocrita su quello scandalistico e soprattutto assolutamente vuoto nonostante la monumentalità della ricostruzione e l’arditezza delle soluzioni tecniche adottate nelle acmi spettacolari (ovviamente fruibili al massimo laddove il film è proiettato nelle sale Imax). Le ragioni del fallimento sono molteplici però è indubbio che quelle maggiori risalgano al feroce controllo operato sulla realizzazione del progetto dai restanti membri del gruppo (Brian May, Roger Taylor e John Deacon), non solo coproduttori, ma anche proprietari dei diritti delle canzoni. Nell’ansia di garantire un prodotto per famiglie espurgato di qualsiasi risvolto torbido hanno, per di più, usufruito del supporto di Mary Austin, ereditiera di Freddie con cui fu fidanzata per sei anni prima che il cantante morto a 45 anni di Aids si abbandonasse alla preponderante natura gay: succede così che la loro storia d’amore occupi la metà del film, mentre il sesso con gli uomini e la frequentazione dei locali hard sono rievocati solo da qualche imbarazzato inserto e la nota relazione con Jim Hutton ridotta a un bacio furtivo sui carismatici baffi.
Dopo almeno tre cambiamenti di scelta, il peso ciclopico del protagonista è toccato a Rami Malek che per coloro che amano i ricalchi mimetici risulterà più credibile di un effetto speciale vivente: le canoniche tappe del percorso verso la gloria dell’artista predestinato –in questo caso il figlio londinese d’immigrati parsi Farrokh Bulsara- si traducono in una performance che da una parte segna uno dei pochi valori del film, ma dall’altra fa sì che l’encomiabile recupero della “mostruosa” energia tramandata dalla vita spericolata del trasformistico frontman rischi in ogni momento di scivolare in pantomima (con la protesi riproducente i quattro incisivi in più con cui era nato che talvolta sembra in procinto di fuoriuscirgli di bocca). Il problema resta in ogni caso quello che allo spettatore vengono serviti tutti i cliché possibili della leggenda con annesso accumulo di simbolismi grossolani (come quello in cui Freddie incrocia un malato di Aids e lascia la clinica come colpito da un raggio di luce divino) e nessuna autentico rilievo drammaturgico concesso ai personaggi collaterali membri della band compresi. L’agiografia feticista conta, in effetti, sul martellamento della musica che dilaga dalla prima sequenza fino all’apoteosi degli ultimi venti minuti che ricostruiscono la mitica esibizione dei Queen al Live Aid del 1985. Quando, sia pure trascinati dall’innegabile suggestione, è impossibile non interrogarsi sull’apparente assurdità dell’operazione e sulle ragioni per cui il cinema ha profuso milioni di dollari per riprodurre nel simulacro (come lo definirebbe il filosofo Baudrillard) dei pixel dell’alta definizione le facilmente reperibili e venerabili immagini passate alla storia.
BOHEMIAN RHAPSODY
Biografico/Musicale – USA/GB 2018
Regia di Bryan Singer. Con: Rami Malek, Ben Hardy, Gwilym Lee, Joe Mazzello