Recensioni

Pubblicato il 17 Febbraio 2010 | da Valerio Caprara

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Bastardi senza gloria

Bastardi senza gloria Valerio Caprara
Emozione
Qualità
Scrittura
Recitazione

Sommario: C'era una volta... La Storia.

5


Ha proprio un altro passo, Quentin Tarantino. Di fronte a «Bastardi senza gloria», infatti, qualsiasi riserva di gusto personale si voglia mantenere, non si può che restare sbalorditi per le strepitose finezze d’inventiva, impianto narrativo, ritmo, recitazione, colonna sonora, versatilità stilistica, competenza e passione cinéfila di cui è davvero stracolmo. In un’epoca che vede il cinema quasi sempre costretto a vivacchiare sulla difensiva, il ragazzaccio del Tennessee compie il miracolo di riportarlo all’apice dell’immaginario collettivo: chi non si sarà goduto questa lampada d’Aladino in forma di film, insomma, avrà ben poco da discettare nelle prossime occasioni pubbliche o private incentrate sul cinema, l’arte o la cultura. Non è un caso che si provi riluttanza a ridurlo in pillole da recensione: la trama, sia pure lineare e conseguente, risulta incardinata nella progressione audiovisiva e viceversa, rendendo improprio e superfluo il consueto gioco di sponda tra forma e contenuto, realtà e, appunto, messinscena.

C’era una volta… La Storia. Magari quella di Hitler e della seconda guerra mondiale che ci ha regalato alcuni capolavori e molte risciacquature di pellicola. Però Tarantino ha il dono di re Mida e quando inizia a raccontare è come se lo schermo s’illuminasse per la prima volta agli occhi del primo spettatore. La Francia occupata, ma potrebbe essere un western di Ford: il colonnello delle SS Landa – cioé l’attore Christoph Waltz da Oscar a furor di popolo – bracca gli ebrei in un casolare di campagna, ma alle sue grinfie sfugge la ragazza che ritroveremo più tardi a Parigi, demiurga di una sala cinematografica dove la fiaba pulp ‘tarantinata’ è destinata a incrociarsi con il super-pulp nazista. In contrappunto alla promessa di vendetta alla «Kill Bill» ecco la sporca dozzina dei mazzieri yankee, paracadutati oltre le linee, comandati da un Brad Pitt brutale e tontolone e votati alla caccia degli scalpi del nemico come facevano gli Apache. Scandito in capitoli – ognuno dotato di cifra espressiva autonoma (si va dal cinema tedesco di montagna a quello francese sotto Vichy e alla serie B italiana dei Castellari, Fulci, Margheriti) – nonché traboccante delle musiche di Tiomkin, Bernstein, Morricone, Bowie, Ferrio e decine d’altri di cui neppure le case discografiche conservavano il ricordo, il pastiche prima si definisce nei più invisibili raccordi dell’inquadratura, poi prende la rincorsa con irresistibili tornei verbali e infine deflagra in sequenze d’azione geometrica e concisa. Se il cinema deve far sognare a occhi aperti, sostiene Tarantino, sullo schermo il desiderio di giustizia può ribaltare i dati della storia: a patto che a condurre le danze siano personaggi come quelli della bionda diva teutonica che sa recitare il doppio gioco, mentre i guerrieri finto-italiani sanno biascicare solo buonciorno al nemico inatteso poliglotta.

Il divertimento è grande proprio perché l’intarsio è follemente minuzioso: non importa pertanto pescare le citazioni a una a una, bensì abbandonarsi al piacere di un’immaginazione tanto più efficace quanto più aderente ai tempi, i dialoghi, le tensioni, i sarcasmi preferiti dall’autore. Per diventare un classico basterebbe la sequenza in cui la francesina si prepara a sferrare l’attacco, vestita come Danielle Darrieux, dipinta con i colori Apache e (come Quentin) pressoché drogata dai poteri della pellicola.

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