Pubblicato il 29 Marzo 2016 | da Valerio Caprara
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Sommario: 155 anni di storia del Football Club Barcelona e dei suoi campioni
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E’ ormai raro che un grillo parlante in livrea intellettuale scarichi anatemi contro il calcio. Sia pure aggredito dal dominio degli strapoteri finanziari, il gioco più popolare del mondo resta, infatti, in qualche modo collegato all’originaria dimensione epica: quella che indusse Camus ad affermare : “Tutto ciò che so di più sicuro sulla moralità e i doveri degli uomini lo devo al calcio”. E l’appiglio principale a cui s’abbarbica la resistenza è costituito dalla possibilità di riconoscere ad alcune compagini, a dispetto dell’eccesso mediatico delle iperboli (oggi tutto deve essere “fantastico”, “unico”, “inimitabile”) e del virus della faziosità che s’annida in tutti noi adepti, il dàimon, il carattere, lo spirito che si cementa con la storia, i protagonisti e lo stile. Diventa così imperdibile Barca Dreams, il documentario dedicato alla storia e la leggenda del club simbolo dell’identità catalana e dei suoi campioni che viene proiettato solo il 29 e il 30 aprile in alcune sale italiane. Lo sceneggiatore, produttore esecutivo e regista Jordi Llopart vi percorre i 115 anni intercorsi dall’anno della fondazione del Football Club Barcelona a opera di un grande uomo di sport come Joan Gamper sino a oggi, selezionando e restaurando circa duemila immagini d’archivio (impresa tutt’altro che secondaria, considerato il mare di restrizioni incombenti sullo sfruttamento dei diritti del calcio), realizzando interviste inedite e arrivando a dimostrare come il logo Mès que un club, più di una semplice squadra, rispecchi davvero la cura riservata a valori come il bel gioco, l’ambizione, il fair play.
Il documentario, come risulta sempre più gradito ai cinefili e alle giurie dei festival, non si confina nella classica struttura cronologica e preferisce fare evolvere il filo del racconto dall’intreccio dei fatti che non a caso contemplano anche le sconfitte o i fallimenti che hanno contribuito a forgiare la tempra e la tenuta del modello Barca. L’omaggio, insomma, riesce a non risultare arrogante e trionfalistico perché adottabile non solo dai fieri tifosi locali, ma anche dai milioni di simpatizzanti sparsi in tutto il mondo. Difficile, infatti, indirizzare l’ostilità o addirittura l’odio che in quest’ambito non mancano mai di tracimare oltre il previsto e il consentito, contro la gratitudine e la fedeltà al club espresse da Leo Messi, Xavi Hernàndez o Andrés Iniesta formatisi nel mitico vivaio di La Masia; contro l’unità competitiva ribadita dai tesserati delle numerose discipline sportive inserite nella struttura blaugrana, a cominciare dalla supersquadra di basket a suo tempo capeggiata dal divino Gasol; contro la forza epocale delle innovazioni tattiche e mentali apportate da eroi moderni come Cruyff e Guardiola; contro le storie dei tanti stranieri, da Kubala a Neeskens, Schuster o Ronaldinho integrati nel segno del cosmopolitismo progressista catalano (dispiace il poco spazio concesso a Maradona, anche se si capisce come ancora brucino le ferite generate da quella volta sfortunato connubio) oppure contro l’implicito richiamo al rispetto di quanto sostenne Henry de Montherlant: “i nemici che si battono in questo sport non provano odio bensì rispetto reciproco e spesso gli avversari di ieri diventano gli alleati di domani”. Uscendo dalle nostre sale verrà, dunque, naturale cinguettare: no signor Bonucci, non è vero che #contasolovincere.