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Anora
Sommario: Rampollo di neomilionari russi che se la spassa a New York s'invaghisce alla follia di una ballerina/escort furba e disinibita. Al culmine di un tour de force di alcol, sesso, droga e sperperi la famiglia decide di braccare il viziato e vizioso giovanotto...
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Non se la tira da capolavoro -ancorché abbia vinto la Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes- ma “Anora” è uno di quei film ormai rari che deliziano il cinefilo e galvanizzano lo spettatore vittime abituali dei cipigli autoriali e le poetiche ineffabili. Se, infatti, nell’ambito dello stesso filone ci sono già un cult divistico-romantico (“Pretty Woman”) e uno strepitoso noir kafkiano (“Fuori orario”), in questo caso il regista indipendente Baker passa dall’erotico al sentimentale, dalla risata all’angoscia con un brio e una vividezza che colpiscono nel segno. Ai maniaci del messaggio, per di più, questo film in apparenza così disimpegnato e spudorato, le cui sequenze -per così dire- si allungano come un elastico e sembrano sempre sul punto di spezzarsi, regala a sorpresa un sottofondo di analisi sociale tutt’altro che banale o edulcorato. Anora, che in uzbeko sembra significhi “granata”, è non a caso il nome completo della ventitreenne Ani (Madison), l’indiavolata ballerina e all’occasione escort di uno strip club di Brooklyn che fa perdere la testa al viziato e vizioso Ivan (Eydelshteyn), rampollo di un oligarca russo trapiantato nella Grande Mela. Ubriaco di piacere e scarso di cervello, l’efebico giovanotto la paga lautamente per trascorrere una settimana in sua compagnia in un frenetico crescendo di alcol, droga e tripudi sessuali prima di trascinarla, sempre ricoprendola di lusso e di regali, in una folle trasferta a Las Vegas dove la sarabanda prenderà una pericolosa piega… sino al contropiede finale dolceamaro. Baker filma, insomma, nel suo stile (fintamente) disordinato adattandolo ai toni e le atmosfere degli equivoci ambienti che attraversa quasi sempre di corsa, dai palchi privati dove la disinibita Cenerentola e le sue amiche si esibiscono in lap dance sulle ginocchia di sgradevoli clienti alle sfarzose ville dei nuovi miliardari, dalle temibili tribù degli immigrati est europei agli hotel a cinque stelle dell’Eldorado americano. Si nota tra le righe l’influenza del cinema della Nuova Hollywood anni Settanta, soprattutto per il modo in cui il direttore della fotografia Drew Daniels s’avvale della cornice invernale, una sensazione quasi fisica che s’insinua nello spettatore anche nei momenti più divertenti e stravaganti del film. Incurante della correttezza woke -tornando al versante “politico” che abbiamo premesso- per il regista e sceneggiatore ciò che è davvero alienante non sono i piaceri del sesso, anche quello mercenario, bensì l’ordine societario basato sull’obbligo del lavoro; tanto è vero che la sua presa di coscienza si risolverà in una coatta emancipazione dall’empireo dei privilegiati che per un po’ l’ha illusa e poi rigettata. Il casting perfetto – dalla protagonista Mikey Madison (“C’era una volta… a Hollywood”) che rende credibili tutti i suoi stati d’animo di volta in volta aggressivi, depressi, smaliziati o disincantati a Yuriy Borisov (“Scompartimento n. 6”), uno degli scagnozzi russi- contribuisce alla riuscita di questa commedia sotto anfetamine o magari thriller con risvolti demenziali.