Recensioni

Pubblicato il 17 Gennaio 2022 | da Valerio Caprara

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America latina

America latina Valerio Caprara
soggetto e sceneggiatura
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario: Dentista ricco e affermato di Latina, il dottor Sisti, nonostante episodici e sfuggenti segnali d'inquietudini mentali, sembra gestire una tranquilla vita familiare nella sua fastosa villa con piscina. Un brutto giorno, però, sceso in cantina fa una scoperta che lo condurrà nella spirale di un progressivo, inarrestabile scivolamento di sé stesso e degli altri nell’orrore, il crimine e la follia.

2.3


“America latina” è il terzo lungometraggio dei gemelli D’Innocenzo, astri nascenti del cinema italiano che lo hanno presentato in concorso all’ultima Mostra di Venezia ricevendo molte lodi e zero tituli. Tutto normale se non fosse per l’increscioso alterco sviluppatosi tra il più caliente della coppia e un recensore attivo su Instagram aspramente avverso: di qui nasce la raddoppiata responsabilità di mantenere l’equilibrio tra serenità e libertà di giudizio e tentazioni di prudenza cautelativa. Tanto più che anche a noi, sia pure convinti dalla rilevanza del loro stile e le loro tematiche, repellono la sgradevolezza eletta a cifra autoriale e lo sfondo fisso fosco e desolato: prim’ancora che qualche interlocutore più o meno cinefilo ricorra a Wikipedia, annotiamo che non basta aggrapparsi a Polanski, Cronenberg Lynch, Argento –o ancora più specificatamente al Ken Russell di “Stati di allucinazione”- per dotarsi della spinta e potenza creative necessarie per scandagliare l’oscuro della mente. Dunque, altro che America, siamo a Latina il capoluogo pontino descritto come non farà certo piacere all’Ufficio del turismo, dove vive il dentista Sisti, professionista di successo insediato con la famigliola in una mega villa con piscina che sarebbe eufemistico definire kitsch: tutto sembra scorrere come l’alto status sociale gli garantisce –nonostante non manchino repentini e allarmanti segnali d’anormalità- finché un brutto giorno il protagonista –interpretato da un Elio Germano come al solito maniacalmente aderente all’ambiguo ruolo assegnatogli- sceso in cantina s’imbatte in qualcosa d’inspiegabile o, per meglio dire, fa una scoperta da cui scaturirà un progressivo, inarrestabile scivolamento di sé stesso e degli altri nell’horror, il criminale, il delirante e lo psichedelico. Non si può rivelare di più sia perché la maggioranza delle sottotrame architettate dalla sceneggiatura scritta dagli stessi registi insistono nel confondere i contorni dei fatti e sovrapporre a ciclo continuo dubbi e indizi, sia perché la principale caratteristica del film fotografato magistralmente da Paolo Carnera sta tutta in questo gioco di metafore a oltranza: soluzione che può piacere o respingere, ma che in ogni caso purtroppo produrrà gli immancabili propagatori –ne sono spuntati già molti in occasione dell’esordio veneziano- di esegesi ridicole e strampalate come quella della condanna del maschilismo italico o quella del manifesto contro il classismo societario. Interrogarsi sui misteri dello stare al mondo e della deriva del buonsenso umano rappresenta, soprattutto in questi tempi, un atto di coraggio, ma costruire un castello di provocazioni visionarie, distorsioni percettive ed effettismi narrativi lasciando che lo spettatore s’arrangi con le chiavi d’accesso non è un procedimento convincente.

 

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