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Pubblicato il 15 Aprile 2010 | da Valerio Caprara

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 Addio a Raimondo Vianello

E’ normale e anche giusto che l’ultimo omaggio del pubblico e della critica riconosca in Vianello uno dei mattatori della radio e la televisione intelligenti. Un po’ meno appropriato sembra, però, liquidare il suo versante cinematografico come un tipico caso di cattivo sfruttamento del talento: innanzitutto, volendo essere pragmatici, perché un’ottantina di film da attore più una quindicina come sceneggiatore costituiscono una dote cospicua che non è affatto scontato reperire altrove. Ma non si tratta solo di quantità perché, a pensarci bene, la forza dell’uomo di spettacolo si può valutare sulla base di un percorso dalle nostre parti ritenuto secondario: dal piccolo schermo a quello grande senza portarsi dietro complessi di colpa ma, anzi, ribaltando lo status e la sindrome dell’ospite (quand’anche d’onore) indesiderato. La sua principale qualità, cioè la padronanza di un umorismo tagliente e insieme lieve, molto british e talvolta surreale si è ritrovata infatti in sintonia con un’epoca particolare del cinema italiano: il prolungato dopoguerra, prima redento dal neorealismo, poi disilluso dalla sua deriva e infine incalzato dall’esigenza di riconquistare il grande pubblico e fronteggiare l’egemonia hollywoodiana sul piano dell’intrattenimento puro.

Non per nulla Vianello inizia alla fine dei Quaranta al fianco di un genio come Totò, sintonizzando l’elegante figura dinoccolata sui dirompenti tempi iconoclasti del Principe in titoli oggi di culto come “I due orfanelli”, “Fifa e arena”, “Totò sceicco” o “Totò diabolicus”. Ruoli da spalla, certo, ma già in grado di mostrare come il biondo finto tonto, sfruttando al meglio gli spunti dei nuovi stakanovisti del copione alla Metz-Marchesi o Scarnicci-Tarabusi, sia in grado di modulare la voce e le battute sui limiti del paradosso ed afferrare l’attimo fuggente della comicità che scaturisce sempre e comunque dall’incontro/scontro tra diversi tipi umani. Non può considerarsi, insomma, distratto l’approccio al cinema di Vianello, se i suoi migliori personaggi si specializzano nella parodia dei generi popolari che ne rafforzano il glamour: il peplum (“Maciste contro Ercole nella valle dei guai”, ’61), la spy story (“Il vostro superagente Flit”, ’67), il western (“Per qualche dollaro in meno”, ’66), il bellico (“Il giorno più corto”, ’63), il thrilling (“Psycosissimo”, ’61). Il leggendario affiatamento con Tognazzi, del resto, si è perfezionato davanti alla macchina da presa dando luogo a una formidabile galleria di sketch che parte da “Ridere, ridere, ridere” del ’55 e finisce solo nel ’68 con “7 volte 7”: non stiamo parlando di capolavori, certo, ma è chiaro che la grande stagione della commedia all’italiana non sarebbe nata senza l’umile quanto redditizio background costituito, tra i tanti, da “Pugni, pupe e marinai” di D’Anza, “La cambiale” di Mastrocinque, “A noi piace freddo” di Steno o “Guardatele, ma non toccatele” di Mattoli. Unico e inimitabile per simpatia, modestia e discrezione, ma artista solitario no, questo mai: Vianello continuerà a vivere nell’immaginario collettivo attorniato da uno stuolo di campioni che si chiamano, appunto, Totò o Walter Chiari, Vittorio Gassman, Aroldo Tieri, Virna Lisi, Buscaglione, Dapporto, Taranto, Croccolo, Pica, Masiero, Dorelli, Franchi e Ingrassia…

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