Recensioni

Pubblicato il 3 Febbraio 2022 | da Valerio Caprara

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ADDIO A MONICA VITTI


Il suo volto, la sua voce, i suoi capelli, il suo fisico. Certo li custodiamo nella retina e nel cuore, ma le espressioni no, le espressioni le abbiamo inseguite, bloccate, perdute e ritrovate un numero incalcolabile di volte e a stento le inquadriamo una a unaadesso nell’ora del dolore. I lineamenti di Monica Vitti –succede solo ai grandi- sono stati in grado di modificarsi da un’interpretazione all’altra frantumando il luogo comune dell’attrice divisa in due, prima drammatica e poi comica: fredda e sensuale, scatenata e malinconica, fragile e indomita, tenera e temeraria, ha irradiato un caleidoscopio di personalità che convergono nell’icona che le contiene tutte. Quasi cinquanta film, senza addentrarci negli altri pur cospicui versanti della sua carriera, sono tanti, ma a suggerire il suddetto punto fermo è stato per primo Risi che in “Noi donne siamo fatte così” (1971) affidò all’ex musa di Antonioni dodici personaggi diversi, un autentico bestiario al femminile in grado di sancirne una volta per tutte la vocazione al trasformismo creativo, alla metamorfosi guidata, alla garbata presa in giro del genere per il cui riscatto ha contato e continua a contare più di centohashtag del #MeToo.
Siccome riversare sul lettore un elenco fornito di pallini o stellette al merito e demerito (nella pletora non mancano titoli indiscutibilmente brutti) oggi non serve a niente perché l’interessato è in grado di sfogliare l’album della filmografia da solo (magari aiutandosi col bel documentario di Fabrizio Corallo “Vitti d’Arte, Vitti d’Amore”), proponiamo un gioco dell’oca personale in cui le date restano, ma non risultano per forza consecutive e allineate. Casella del labirinto. Si parte, come da copione, dalla tetralogia di Antonioni che apre gli anni Sessanta (“L’avventura”, “La notte”, “L’eclisse”, “Il deserto rosso”) in cui Monica conduce lo spettatore confuso e perplesso quanto i suoi personaggi corrosi dalla nevrosi sino al bordo del baratro dell’alienazione che, però, in extremis evita la caduta nel melodramma e si fa stile, forma, casualità, inazione.Casella della casa. Sospinta dallo stesso mentore a trovare nuove strade per la propria vocazione, Monica inanella una serie di ruoli in cui si muove a suo perfetto agio, come se si fosse decisa a giocare nello spazio protetto della propria abitazione: “Ti ho sposato per allegria” (1967), frenetico esperimento sull’impossibilità della coesistenza coniugale, ci fa tornare indietro, sino agli episodi di “Alta infedeltà”, “Le bambole” e “Le fate” e soprattutto “ModestyBlaise, la bellissima che uccide”, un film di Losey in libera uscita memorabile solo per l’esposizione dell’intero catalogo delle mode visuali anni Sessanta. Casella del ponte. Vi si replicano a volontà, rischiando persino di scivolare nel pedestre, i toni asprigni di “La ragazza con la pistola” di Monicelli, odissea della ragazza sicula sbarcata a Londra per vendicarsi dell’uomo che l’ha sedotta e abbandonata. Qui s’immagina un affollamento da ora di punta in metropolitana: da “La cintura di castità” di Festa Campanile a “Dramma della gelosia” di Scola, da “Letti selvaggi” di Zampa a “Amori miei” e “Non ti conosco più amore” di Steno, da “Camera d’albergo” ancora di Monicelli a “Ninì Tirabusciò” di Fondato.Casella della prigione. Si resta fermi finché un altro regista non finisce nella stessa casella. Condizione piaciuta molto a Sordi che a partire da “Amore mio aiutami” (1969) e proseguendo con l’episodio “Il leone” di “Le coppie”, “Polvere di stelle” (per noi il top assoluto della sua epifania schermica)e “Io so che tu sai che io so” (1982) le regala miscele di grottesco e patetico trionfanti al botteghino a dispetto delle critiche feroci. Stesso meccanismo, ma con ispirazione e gusto altalenanti per i tre film diretti tra il ‘72 e il ‘77 dall’allora compagno Di Palma: “Teresa la ladra”, “Qui comincia l’avventura” e “Mimì Bluette…”. E ci si deve anche trovare un degno posto per “Flirt” (’83) e “Francesca è mia” (’86) di Russo, amorevole collaboratore anche di “Scandalo segreto” (’90), sua ultima prova firmata anche come regista e co-sceneggiatrice. Casella del 9. Quella, per intenderci, che una volta raggiunta al primo turno, fa vincere la partita in una sola mossa. Vi s’intravedono nella nebbia dei ricordi cinefili, “Il disco volante” di Brass, “Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo!” di Maselli, “La Tosca” di Magni, “Il fantasma della libertà” di Bunuel, ma in ogni caso tanta fatica per nulla, a vincere è sempre “lei”. Claudia, Raffaella, Tina. Livia, Margherita Assunta, Teresa, Giuliana non sono state, infatti, trasportate al Museo delle Cere –leggere per credere l’imprescindibile libro della Marangoni “E siccome lei”-, ma combattono (ridono e piangono) insieme a noi indefettibili amatori.

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