Pubblicato il 23 Dicembre 2020 | da Valerio Caprara
0A proposito di “Natale in casa Cupiello” di De Angelis
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3.8
Premessa. Compulsando talvolta con franco divertimento, talaltra con orrore e raramente (purtroppo) con grato interesse qualcuno delle centinaia di commenti che disseminano i social all’indomani della messa in onda del film di De Angelis, mi si è accesa un’imprevista scintilla. A una combattiva corrispondente, con la quale peraltro mi ritrovo sempre in piena sintonia a proposito di battaglie civili sostenute nella nostra impareggiabile (in tutti i sensi) città, in capo a una lapidaria stroncatura sfugge, infatti, la frase illuminante, l’apriti sesamo di numerose indignazioni incontenibili: “Molto meglio gli allestimenti delle tante compagnie amatoriali”. Ecco, molti degli odiatori (più che legittimati a farlo, ovviamente) vorrebbero che sul testo pour cause IRRIPRODUCIBILE (ci perdoni Benjamin) di Eduardo s’impiantassero solo e sempre imitazioni da mercato cinese del pezzotto. Per l’inconfessato terrore che un’opera pensata e creata, in fondo, per sollazzare il pubblico e ritirare al botteghino i soldi dei biglietti possa perdere ipso facto i suoi valori da Bibbia, Talmud, Upanisad, Corano fuori corso artistico…
PS Vorrei altresì specificare che non sostengo di avere assistito a un capolavoro, bensì a un film di spessore e che la virulenza di certe ripulse implica il concetto di lesa maestà che non mi appartiene… Il fatto è che i testi di Eduardo -in taluni casi previa liberatoria del copyright- sono a disposizione dei professionisti che vogliono rappresentarli; i quali ovviamente, non sono obbligati ad allinearsi al maestro, a meno che non si tratti di filodrammatiche basate sull’imitazione il più possibile pedissequa. Citerei al proposito sia la recente versione di “Il sindaco del rione Sanità” di Martone –ottima però impiantata su una commedia meno nota e secondo il sottoscritto molto meno buona- sia quella (in inglese!), assolutamente strepitosa e clamorosamente dimenticata, di “Le voci di dentro” di Turturro. Quindi si può accettare, trattandosi di libere opinioni e non di guerriglie patriottiche, che l’essenza cercata da Castellitto sia stata divergente o magari aggiornata rispetto a quella classica.
Quando Luca Cupiello illustra il presepe all’amante della figlia la cinepresa penetra nei meandri di sughero, fonde l’azione con la finzione e, dilatando le rispettive proporzioni, tramuta gli attori in pastori e viceversa. Il criterio seguito da De Angelis nella messa in scena della commedia di Eduardo è, in questo come in altri frangenti, evidenziato nella sua formidabile semplicità: trattare con il linguaggio del cinema la tragicomica inversione dei comportamenti, le cognizioni e le implicazioni su cui gravita il copione lavorato di fino insieme a Massimo Gaudioso a partire dall’originale, ma senza i grotteschi travisamenti talvolta ritenuti medaglie al merito artistico. Nel momento d’esprimersi su Eduardo, Cupiello e il presepe sappiamo che bisogna fare come i marinai di Ulisse e turarsi le orecchie con la cera per sfuggire all’epigrafe tombale “è stato detto tutto” e all’immensa sapienza dei napoletanisti in servizio permanente effettivo, magari sorvolando sul tentato ribaltone sessantottino secondo cui il figlio di Scarpetta doveva essere defenestrato e rimpiazzato da Viviani; ma per fortuna al pubblico tocca solo il piacevole compito di confrontarsi con la baldanza, la spregiudicatezza e la libertà creativa del regista che dalla routine del teatro filmato si è tenuto decisamente distante. Un film-film, insomma, che osa già nel prologo avvolgendo la penombra degli esterni di nevischio, suggerendo flash di connubi malapartiani tra marinai e “segnorine” (siamo nel 1950, ma il dopoguerra a Napoli è durato il doppio) e tenendo la scena sotto tiro dell’allarmante sound del maestro Avitabile, perfettamente integrato nel progetto come tutto il resto dei collaboratori tecnici (fotografo, scenografi, costumista, montatore, uno più bravo dell’altro). Ne consegue un approccio meno comico di quanto siamo abituati a compiacerci, più aspro, in sottofondo anche vagamente assurdo proprio come il Natale che non solo Napoli, ma il mondo intero sta vivendo in questi giorni.
Castellitto, poi, è un autentico gigante, guai a chi s’attardi a chiosare se il suo napoletano valga otto invece di dieci come a noi sembra: la sua è una performance memorabile nell’espressione, le battute e i movimenti di rabbie autolesionistiche, isteriche (la pirandelliana corda pazza) verso lo showdown devastante per sé stesso e il coro di una microborghesia inghiottita dal decennio che si crede modernizzato mentre ancora annaspa nei detriti del funesto passato recente. Rimpiangiamo pure, a questo punto, i grandi attori e caratteristi che hanno preceduto nella storia del teatro e delle versioni tv quelli che adesso De Angelis muove come pedine di una feroce partita mai in surplace, a patto, però, di tenersi d’ora in poi stretti anche la casalinga disperata della Confalone, il bamboccione ante litteram di Pantaleo, lo zio tormentato e tormentoso di Laudadio, l’indurita e fascinosa Ninuccia della Turco antesignana delle imminenti liberazioni femminili, il virile Elia di Lapice o il Nicola di Milo rappreso nella sua ira incontenibile. I piani sequenza che si frantumano sempre più spesso a causa delle scintille in libera uscita da un focolare ormai artificiale sfociano, infine, nel memorabile momento in cui tra il crepitio dei fuochi artificiali e i controluce più mortuari, appunto, che festosi dei lumi di candela, irrompe una delle sublimi acmi della “Tosca”: come se, in effetti, questo anti-climax da manuale sancisca l’inevitabile passaggio dal neorealismo al melodramma, da uno scandaletto coniugale che oggi non conterebbe niente all’estasi d’amore eterna e universale… “nun ce ricimme niente/a vita nasce r’a vita/oggi, rimane e sempre”.