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Pubblicato il 28 Settembre 2024 | da Valerio Caprara

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SOPHIA 90

Attrici ma ancora di più miti. Celebrity ma ancora di più icone. Epocali ma ancora di più universali. Quando si parla della Loren si prova un certo imbarazzo a trattare l’argomento con gli ordinari strumenti della critica perché se è vero che esiste un suo ricco e articolato profilo professionale col relativo elenco di prestigiosi premi e riconoscimenti conseguiti, è altresì certo che nel caso di dive fuori scala come lei ci si ritrova in un territorio alieno, una tela finissima in cui le singole recensioni e i criteri di valutazione restano sospesi, indefinibili o pleonastici. Com’è del resto successo alle Garbo, Dietrich, Monroe o Bardot la si è giudicata di volta in volta brava o meno brava, ma mai solo con questo metro perché persino la sua vita reale è diventata un film tra i film. È inoltre importante il fatto che essendo apparsa sugli schermi dai primi anni Cinquanta sino al primo ventennio dei Duemila, Sophia ha vissuto in prima linea e al massimo livello un ampio e cruciale periodo della storia del cinema, dovendo e potendo di conseguenza misurarsi con registi, partner, pubblico e temi assai diversi e variegati e reggere l’impatto con radicali rivolgimenti della storia e del costume.

Da un punto di vista generazionale è scontato nutrire un particolare trasporto per il primo grande blocco della filmografia, quello che tra un concorso di bellezza e un altro prende le mosse dai fotoromanzi, lo pseudonimo di Sofia Lazzaro, le figurazioni con poche battute disponibili e i titoli degli anni Cinquanta da “La domenica della buona gente” a “Miseria e nobiltà”, da “L’oro di Napoli” a “Pane, amore e…” (che il dio del cinema abbia in gloria la pizzaiola della Sanità e la ballerina del mambo col baffuto maresciallo), da “Peccato che sia una canaglia” che l’abbina per sempre al partner ideale Mastroianni  a “La donna del fiume” in cui è per la prima volta protagonista, per di più in un ruolo a intense tinte melò. Gli anni, per intenderci, della rivalità con la Lollo sotto il segno delle cosiddette maggiorate fisiche promossa con blanda malizia dai press agent dell’epoca e oggi rievocabile solo con la pistola del politicamente corretto puntata sulla tempia… Se per gusto personale non ci esaltano il nutrito gruppo dei film girati negli Usa grazie all’alacre lavoro del neomarito Ponti, è importante sottolinearne la funzione decisiva per la piena affermazione dell’attrice sbocciata dalla crisalide del cinema italiano fragrante e popolare. Inoltre nella fattispecie è stata straordinaria la sua capacità di adeguarsi con studio, tenacia e sacrificio ai progetti di registi autorevoli ed esperti come Kramer, Hathaway, Cukor o Lumet e di reggere sempre meglio il confronto con partner “ingombranti” da tutti i punti di vista come Grant, Sinatra, Wayne, Holden, Quinn o Perkins. In ogni caso tra le prove meno decorative della bellissima venuta d’oltreoceano restano secondo noi a futura memoria la “peccaminosa” vedova italoamericana di “Orchidea nera” (Coppa Volpi a Venezia), la primattrice di una compagnia di guitti del western “Il diavolo in calzoncini rosa” e l’avvenente innamorata di un soldatino di “Quel tipo di donna”. L’anno di cinematografica grazia 1960, oltre al ritorno a Cinecittà, tramanda però il colpo d’ala della carriera, una sorta d’ingresso nell’empireo dei sogni (suoi e di varie generazioni di spettatori) grazie all’interpretazione oscarizzata della protagonista di “La ciociara” contestualmente alla nascita del sodalizio artistico col De Sica regista destinato a proseguire in altre sette celeberrime pellicole. Non a torto è ampiamente divulgata l’irresistibile spinta impressa all’immaginario collettivo della decade dalle brillanti e sensuali incarnazioni di “Ieri, oggi, domani”, “Matrimonio all’italiana” e (molto meno) “I girasoli”; però nessuno potrà negarci il piacere di citare anche l’episodio “La riffa” nel film a più mani “”Boccaccio ‘70” che rappresenta una satira del moralismo bacchettone e il puritanesimo ipocrita in qualche modo attuale finanche ai giorni nostri. Meno acclamati ma da non trascurare sono anche due film agli antipodi come “La contessa di Hong Kong” di Chaplin e “C’era una volta” di Rosi entrambi del ’67, perché nel primo le schermaglie tra l’entraîneuse Sophia e il milionario Marlon Brando rappresentano -alla faccia delle storiche stroncature- una sottile metafora della deriva delle società disumanizzate e nel secondo quelle tra la selvatica Loren e il principe Omar Sharif ricreano con deliziosi sfarzo e brio vintage la Cenerentola campana delle favole di Basile. Dal 1970 in poi non c’è più nulla da scoprire o da obiettare e al massimo si tratta di estrarre da un bouquet sempreverde i film che resistono con più forza alla decadenza del cinema come più ammaliante spettacolo di massa. L’imbarazzo della scelta può essere superato mettendo in fila “Una giornata particolare” (’77), “Prêt-à-porter” (’94) e “La vita davanti a sé” (2020): il primo per il duetto memorabile che staglia la breve vita felice di due anime perse sui colori virati in seppia del crepuscolo mussoliniano; il secondo per il guizzo d’autoironia di gran classe della divina e il suo Marcello che rifanno trent’anni dopo la scena dello striptease di “Ieri, oggi, domani”; il terzo per il ritratto di un’anziana dal passato tempestoso che tuttavia non ha perso l’empatia per il prossimo e si prende cura di un imberbe immigrato che invece non crede più a niente e a nessuno. Quest’ultimo gravato da risvolti un po’ convenzionali, ma proprio per questo valido per confermare che Sophia non ha mai smesso di camminare dieci centimetri più in alto dei film nei quali ha recitato.

 

 

 

 

 

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