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Pubblicato il 28 Settembre 2024 | da Valerio Caprara

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In morte Delon

Un samurai, Le Samouraï. Proprio come recita il titolo originale di uno dei suoi film leggendari, “Frank Costello faccia d’angelo”, Alain Delon ha incarnato come nessun altro sullo schermo l’icona dell’antieroe bello e dannato, l’individualista irredimibile e il paladino di ogni causa -nobile o nefanda- destinato inesorabilmente all’isolamento e la sconfitta. Sul dato di fatto che l’attore scomparso ieri sia stato il più sexy dell’empireo cinematografico dall’alba dei Sessanta al tramonto dei Novanta umori e distinguo stanno a zero; così come sul primato assoluto della sua mascolinità -lineamenti perfetti, fascino magnetico, sguardo blu ghiaccio, feeling erotico pervasivo, movenze e modi forti, bruschi e decisi- a cui (magari, chissà) ci sarà qualche remora ad abbinare l’aggettivo “tossica” ovvero quello più corrivo e sperperato del momento. Premiato poco e in termini riparatori (David di Donatello, Orso d’oro e Palma d’oro alla carriera) rispetto a una filmografia di quasi novanta titoli (tra cui due diretti in proprio), vari telefilm e un pugno d’importanti sortite in palcoscenico, Delon ha scontato il paradosso dell’attore amatissimo dalle platee mondiali, come succede soltanto ai divi d’oltreoceano, ma snobbato a lungo dal sinedrio della cultura cinematografica complessata ed elitaria perché sbrigativamente collegato ai film di genere ritenuti commerciali e popolari. Ovviamente si tratta di un’etichetta finita in discarica che, peraltro, nasconde una malintesa verità: tra la decina di personaggi indimenticabili, spesso diversissimi tra di loro, interpretati da Delon non c’è dubbio che spicchino i protagonisti del trittico firmato dal connazionale Jean-Pierre Melville, maestro malinconico e appartato del polar (la sintesi francese del poliziesco col noir). In “Frank Costello” (’67), “I senza nome” (’70) e “Notte sulla città” (’72), infatti, le caratteristiche fisiche e psichiche di Delon, com’è noto non lontane da quelle personali, assumono una cadenza epica e tramandano un profilo schermico, come dicevano gli hollywoodiani, più grande della vita. A cominciare dal primo capodopera, conturbante tela di ragno parigina fotografata dal mitico Decaë già protagonista della Nouvelle Vague, in cui il sicario protagonista si muove come un ragno mortifero preferibilmente a bordo di una Citroën DS rubata, sfuggendo sino al drammatico showdown agli implacabili persecutori che raffigurano, anch’essi senza alcuna distinzione di rango  morale o sociale, la solerte polizia e i mandanti criminali.

In ogni caso e non solo per noi italiani, l’irresistibile ascesa di Delon nell’immaginario collettivo era iniziata qualche anno prima grazie a Luchino Visconti che lo volle nei cast di “Rocco e i suoi fratelli” (’60) e “Il gattopardo” (’63) subito dopo l’interpretazione ad alto tasso di torbido erotismo in “Delitto in pieno sole” di Clément. Parliamo di due classici del post-neorealismo in cui il magnifico venticinquenne si trova a suo pieno agio, modellando inaspettate quanto sottili sfumature espressive sia nel ruolo cristologico del fratello più puro e generoso della famiglia d’immigrati lucani sperduta nella metropoli milanese, sia in quello dell’ambizioso principe Tancredi il cui bacio con la promessa sposa Angelica interpretata dalla Cardinale resta un momento clou dell’intera galleria della sensualità cinematografica. Cinico agente di cambio che s’insinua nell’apatica incomunicabilità della Vitti in “L’eclisse” di Antonioni, l’attore tornerà anni dopo a incarnare sotto bandiera italica uno dei suoi alter ego schermici più memorabili in “La prima notte di quiete” (’72) di Zurlini: melodramma in temerario ma riuscito equilibrio tra poesia e kitsch che lo tramanda nel ruolo del professore di lettere travolto dalla passione per un’angelica ma vissuta allieva sugli struggenti sfondi della Rimini invernale.

Odiosamato in patria per il suo carattere pugnace e le sue opinioni spesso in contromano al mainstream politico-culturale, riesce nella “sacrilega” impresa di farsi considerare il nuovo Gabin dopo averci lavorato insieme in “Colpo grosso al casinò” e sbanca il botteghino con i feuilleton “Il tulipano nero” (’64) e soprattutto “Borsalino” (’70), sfrenata scorribanda gangsteristica nella Marsiglia anni Trenta in cui duetta deliziosamente con Belmondo che un po’ per forza di cose, un po’ per la gioia dei press agent e la malizia del gossip diventerà l’amico-rivale ideale. La già superflua questione della bravura o meno di Delon viene progressivamente abbandonata anche dal diffidente entourage cinefilo grazie a ottimi prodotti per il pubblico come “La piscina” di Demy (’69) in cui reincontra Romy Schneider, il più grande e rimpianto amore della sua vita, il fumettistico “Zorro”  (’75) del nostro Tessari e soprattutto “Mr. Klein” (’76) di Losey che si può, anzi si deve considerare uno dei massimi cult-movie europei contemporanei. Dove nella Francia occupata dai nazisti interpreta con ieratica essenzialità da teatro nipponico il cinico ed elegante antiquario che lucra sugli ebrei, ma è poi tragicamente costretto a condividerne la sorte. Nel corso degli Ottanta entra nel Pantheon nazionale osando interpretare dignitosamente l’”irrappresentabile” personaggio letterario del proustiano barone di Charlus (“Un amore di Swann”), vince finalmente un César grazie a “Notre histoire” e si concede persino al rigoroso guru del cinema autoriale Godard nel cerebrale “Nouvelle Vague”. Gratificazioni certo importanti, ma per l’uomo e il divo continuerà a valere la frase sovrimpressa dopo i titoli di testa di “Frank Costello”: “Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella della tigre nella giungla”.

 

 

 

 

 

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