Pubblicato il 4 Settembre 2023 | da Valerio Caprara
0Morte Friedkin
A dispetto delle vetuste etichette del marketing William Friedkin, morto ieri ottantasettenne a Los Angeles, non è stato “il regista del Male” bensì un autore emerso nel contesto della Nuova Hollywood con doti, inclinazioni e personalità molto forti e del tutto personali. È certamente vero che l’horror “L’esorcista” (1973), tra i campioni d’incassi di tutti i tempi e candidato a dieci categorie degli Oscar, ha conquistato nel tempo la qualifica di cult movie proprio per gli elementi d’ossessione psicotica a cui Friedkin seppe conferire specifica struttura filmica al di là dell’omonimo best seller di William Peter Blatty da cui era tratto: sorvolando sulla (fino a un certo punto) pittoresca statistica dei malori e dei collassi registrati tra gli spettatori dell’intero orbe terracqueo, è un dato di fatto che critici e studiosi anche non appartenenti alla cerchia dei patiti del genere hanno sottolineato l’abilità con cui il ritmo della narrazione sa fare prendere forma ai demoni nel corpo delle persone “normali”. Nel film, in effetti, il tema non nuovo della doppia personalità non si sviluppa in un tenebroso castello o una landa gotica, bensì in una comune abitazione che a poco a poco si trasforma in un luogo dell’inconscio dove il terrore scaturisce non solo dagli shock visivi ma soprattutto dall’allarmante distorsione dei suoni. Possiamo dire, peraltro, che oggi non solo per gli esperti del cinema americano, Friedkin passa alla storia soprattutto grazie a due capidopera di un poliziesco duro, sporco, disperato e chiuso a qualsiasi ipotesi di romanticismo romanzesco: “Il braccio violento della legge” (1971) e “Vivere e morire a Los Angeles” (1985).
Nato a Chicago da origini ebraiche nel 1939, Friedkin a diciotto anni è già assunto dalla rete tv NBC per realizzare programmi educativi per le scuole e in quest’ambito prosegue fino all’esordio da regista alla metà degli anni Sessanta con “Good Times”, simpatico musical con Sonny e Cher, seguito dal primo successo ottenuto da “Quella notte inventarono lo spogliarello”, un’effervescente e insieme malinconica rievocazione della nascita del burlesque negli anni 20 dell’East Side newyorkese. A suo tempo inedita e piccante è poi la commedia da camera “Festa per il compleanno del caro amico Hariold” tutta incentrata senza censure né pesantezze d’opposto segno moralistico sui rapporti tesi e difficili di una vivace e tormentata brigata di amici gay. Con “Il braccio violento della legge” vince cinque statuette, tra cui quelle più prestigiose di migliore regia e miglior film e lancia nell’empireo dei divi il protagonista Gene Hackman (migliore attore anche lui) che nel ruolo dell’agente della Narcotici “Popeye” Doyle sgomina una banda di pericolosi criminali in trasferta oltreoceano da Marsiglia. Il dibattito suscitato dal film va di pari passo con la sua consacrazione popolare perché alcune sequenze d’estrema crudezza fanno sospettare un’apologia dei metodi polizieschi del “fine che giustifica i mezzi” più o meno sulla linea del contemporaneo “Ispettore Callaghan” interpretato dall’iconico Eastwood. In realtà la potente ritmica dell’azione e dei corpi, destinata a fare scuola, riesce a mettere in scena una lotta tra Bene e Male intrisa di una cupezza non compiaciuta o voyeuristica, bensì di travolgente impatto metaforico. Dopo i trionfi di “L’esorcista”, Friedkin via via si separa dal gruppo di giovani autori arrabbiati di cui faceva parte per assumere una collocazione più appartata, a metà strada fra l’audacia tematica e la sperimentazione stilistica e la sintonia con la spettacolarità della nuova Mecca hollywoodiana. Se il remake di “Il salario della paura” non viene apprezzato come meriterebbe e “Cruising”, ancora sull’odissea del gay world newyorkese stavolta inseguito nel suo versante violento e paradossalmente machista, suscita più che altro curiosità morbose e disappunto sia benpensante che antagonista, “Vivere e morire a Los Angeles” esalta le sue doti d’implacabile narratore della lotta di sopravvivenza divampata negli anni 80 tra i demoniaci boss della criminalità losangelese. Insignito nel 2013 a Venezia del Leone d’ora alla carriera, sposato quattro volte e autore anche di notevoli serie e documentari per la tv, Fiedkin sembrava avviato a un lento declino quando nel 2011 a settant’anni d’età, sbalordisce fan nostalgici e cinefili novizi con “Killer Joe”, straordinario noir su un poliziotto corrotto e assassino (interpretato da un luciferino McConaughey) che esalta il suo leitmotiv preferito. Ovvero il ricorrente intreccio tra la smodata brama umana del possesso e l’atroce destino a cui sono condannati tutti coloro che ne sono affetti.