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Pubblicato il 18 Settembre 2022 | da Valerio Caprara

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Jean-Luc Godard. In memoriam

A Jean-Luc Godard s’addice come a nessun altro l’avverbio più. Il cineasta franco-svizzero è stato, infatti, il più cinefilo, il più teorico, il più rivoluzionario, il più colto, il più prolifico, il più sperimentale, il più ossequiato e il più contestato dell’universo cinematografico della seconda metà del 900 che nelle varie fasi della vita non ha mai smesso di mitizzare e insieme sabotare. E anche l’unico a cui l’irriverente collega Hazanavicius ha dedicato “Il mio Godard”, il film pamphlet che ammira il maestro ma detesta l’uomo. Definire il novantunenne morto ieri con suicidio assistito a Rolle, in Svizzera uno dei capostipiti della Nouvelle Vague è dunque corretto, ma del tutto insufficiente perché qualsiasi periplo della sua opera deve fare i conti con questa grandiosa dismisura, con lo sforzo incessante di confrontarsi con l’essenza a tutt’oggi misteriosa del mezzo audiovisivo più sfrontato e meticcio, un’arte per struttura e vocazione di confine.  

Nato a Parigi nel 1930 da una famiglia di borghesi benestanti di religione protestante aveva studiato a Nyon e poi nella capitale, ma già nel ’48 entra in contatto con Rivette, Rohmer, Chabrol, Truffaut, il gruppuscolo dei filmofagi da cineclub e cinémathèque che di lì a poco formeranno l’équipe dei “Cahiers di Cinéma”, la più prestigiosa rivista di cinema francese fino agli anni Sessanta. Riunitisi attorno al carismatico Bazin, animatore, critico e teorico, i futuri registi fanno propri i principi alternativi al cosiddetto cinema di papà: a loro interessa il linguaggio specifico con cui i film si esprimono, non fanno distinzioni tra prodotti di (presunta nobile) qualità e prodotti commerciali, a esaltarli sono sempre e comunque gli “autori” non importa se relegati dalla critica ufficiale nel limbo dei mestieranti hollywoodiani. Jean-Luc, come premesso, si mostra subito il più acceso e radicale nel rapporto totalizzante con lo schermo, scrivere recensioni per lui è già fare cinema o addirittura “viverlo” come dimostrano i primi corti basati sugli elementi stilistici tipici della Nouvelle Vague: macchina a mano, montaggio frenetico, salti d’illuminazione tra le diverse inquadrature, ricorrenti ambientazioni nel milieu studentesco parigino (le stanzette degli alberghi del Quartiere latino, i bistrot ai cui tavolini si passano ore con un libro in mano, i giardini del Luxembourg ecc). È Truffaut, col quale più tardi consumerà un’amara rottura, che gli gira il soggetto di “Fino all’ultimo respiro”, “À bout de souffle”, girato a basso coste in 4 settimane e ispirato al noir americano “Scarface”: paradossalmente si potrebbe dire che il suo primo lungometraggio costituisce sia un punto di partenza, sia di arrivo, perché riesce a scardinare in toni di beffarda scioltezza il canone dei modi di produzione ed espressione praticati sino ad allora.  Nelle peripezie malavitose e amorose del ladruncolo interpretato dal giovane Belmondo, infatti, l’anarchismo si sposa alla tenerezza in un mix diventato il manifesto della scuola a cui appartiene e una pietra miliare nella storia del cinema.

Per comodità si usa suddividere, come si fa per Picasso, lo straripante corpus godardiano in periodi che aiutino a orientarsi tra variazioni ideali e operative che possono apparire plateali e sconcertanti. In realtà, i relativi riferimenti epocali racchiudono una coerenza deducibile a posteriori una volta compreso che il suo metodo di lavoro si è basato, appunto, su un costante processo di cambiamento e diversificazione. Il primo periodo, euforico, fragile e puro, sospinto dal coraggio e la conquistata libertà intellettuale e fisica delle nuove generazioni, parte dall’apprendistato anni 50 e l’epifania di “Fino all’ultimo respiro” e deflagra nell’apoteosi dei Sessanta. Ne fanno parte, oltre ai corti inseriti in film a episodi  (“Rogopag”, “Parigi di notte”), titoli di culto come il capolavoro “Questa è la mia vita” che racconta la prostituzione senza alcuna commiserazione, “Il disprezzo”, “Bande à part”, “Una donna sposata”, “Agente Lemmy Caution, missione Alphaville”, il poliziesco ultraromantico “Il bandito delle undici” e “Due o tre cose che so di lei” in cui il paesaggio metropolitano funziona come sinfonia nostalgica. Segue l’adesione al gauchisme prima, durante e dopo la grande utopia sessantottina con cui Godard si fa più che militante, una sorta di “superìo artistico” delle ideologie marxiste leniniste grazie a una serie di film oggi non troppo invecchiati perché il suo occhio nervoso e acuminato vi sa cogliere, non senza amara ironia, l’essenza giovanilistica dei processi di mutazione mentre finge di concedere tutto il credito possibile alle narrazioni trionfalistiche. Non a caso “La cinese” e “Week-end” restano in un’ottica linguistica più vividi e risolti di “One plus one”, “Lotte in Italia”, “Vento dell’est” o “Crepa padrone, tutto va bene”. Nessuna abiura deve essergli dunque richiesta, tanto più che dal 1974 alla fine degli 80, JLG s’impegna nel febbrile e al solito geniale laboratorio in cui, anche grazie alla fondazione di Sonimage e l’alternanza di cinema e video, i suoi temi si frantumano in numerosi film-saggio estranei, però ai contenutismi di routine e, anzi, depurati dagli incastri quasi astratti delle immagini e messinscene di gusto geometrico-sintattico. Il pubblico generico, certo, non premia “Ici et Ailleurs”, “Numéro deux”, “Soft and Hard”, “Passion” o “Si salvi chi può (la vita), ma nell’83 “Prénom Carmen” vince grazie al presidente della giuria Bertolucci, il suo primo adepto italiano, il Leone d’oro a Venezia, dando la conferma di un talento non omologabile e di una fantasia creativa impossibile da rinchiudere nelle gabbie delle classifiche e gli incassi. La dissacrazione erotico-politica della vicenda della sigaraia sivigliana (trasformata in rapinatrice) precede “Je vous salue Marie” che, nonostante le accuse di blasfemia, resta un’abbagliante elegia della femminilità e della maternità ancorché reificate nella sensualità della carne. Vince l’Oscar alla carriera nel 2011, ma i film o le antologie filmate che seguiranno sino al 2018, a cominciare da ”Histoire(s) du Cinéma”,  non costituiscono più i frammenti di un’opera in espansione bensì sovrappongono inedite soluzioni espressive a quelle sperimentate nel periodo di massimo fulgore.       

 

 

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