Pubblicato il 24 Febbraio 2022 | da Valerio Caprara
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Sommario: Esaustiva e personale rivisitazione della carriera (con stralci di vita) di Ennio Morricone, compositore dalle basi solide e raffinate che svetta, ma non solo, nella storia della musica da film.
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Regia, soggetto e sceneggiatura di Giuseppe Tornatore, musiche di Ennio Morricone. Basta una riga e diventa indispensabile andare al cinema per vedere “Ennio”, un documentario che non è un documentario, ma piuttosto un doppio viaggio nel percorso del musicista più popolare, eclettico e prolifico del 900 e nel fervore del regista italiano più generoso, maestoso e poetico. Due ore e mezza che fuggono via in un baleno senza lasciare mai lo spettatore indifferente, né quello occasionale che vi ritrova a uno a uno i suoni, gli echi, le voci di cui s’è nutrito il proprio immaginario, né quello assiduo rapito da una storia che sembra fantastica ma è continuamente ritessuta dai rammendi di realtà. Da una parte è facile abbandonarsi alla pura suggestione e seguire Tornatore nello sfoggio di bravura non fine a sé stessa, bensì tesa a reinventare ciò che sullo schermo è indivisibile; dall’altra è importante afferrare il filo conduttore con cui Morricone ha proceduto per la gloria della musica da film e i suoi influssi al di là della destinazione d’uso. Di solito riguardo a opere del genere si dice che il ritratto dell’artista include anche quello dell’uomo, ma poi è rarissimo che sullo schermo l’uno e l’altro si armonizzino o addirittura raggiungano una sorta di sintesi chimica come quella ottenuta dal montaggio di Massimo Quaglia e Annalisa Schillaci nel solco della strategia tornatoriana. Si riconosce, infatti, proprio in quest’impronta il segno distintivo di “Ennio”: se, infatti, il regista siciliano ha collaborato tanto a lungo in simbiosi con il maestro romano è grazie alle affinità elettive, ma anche grazie all’analoga duttilità creativa. I film del primo, che per questo s’è dovuto sorbire la pervicace ostilità dell’ex giovane critica, sono insieme autoriali e popolari, esaltano le potenzialità del cinema ma vogliono che tutte le platee le condividano; le musiche di Morricone, allievo dell’accademico Petrassi, hanno esplorato un campo vasto e incognito accostando il classico al pop, rompendo gli schemi dell’armonia tradizionale e osando combinazioni estreme di accordi e intervalli cromatici, mantenendo curiosità, vigore e tempra anche componendo in proprio o arrangiando per la Rca canzoni di Meccia, Mina o Vianello. Guardare e ascoltare: al cinema lo facciamo sempre, eppure da questa full immersion polifonica sembra emergere la silloge ideale, la perfezione dell’effetto, la disciplina coniugata con la sfrontatezza idealmente riassunti dal binomio costituito con Leone, dall’allarmante armonica di Bronson in “C’era una volta il West” all’ingiuria finale svisata di Wallach in “Il buono, il brutto, il cattivo” fino allo struggente leitmotiv di “C’era una volta in America”. L’atletico vegliardo –ogni mattina all’alba un’ora d’esercizi scanditi dal metronomo nell’incipit- a tratti si commuove perché il “suo” Peppuccio sa dove andare a cogliere senso e sentimento; lo spettatore, invece, anche sull’onda delle innumerevoli testimonianze di primissimo rango –da Bertolucci a Springsteen- talvolta suda freddo nell’apprendere la disistima di cui fu oggetto per il presunto cedimento alla musica leggera (in primis, come da copione, dai palloni gonfiati della musica d’avanguardia).