Recensioni

Pubblicato il 7 Ottobre 2021 | da Valerio Caprara

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IL BUCO

IL BUCO Valerio Caprara
soggetto e sceneggiatura
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario:

2.5


Autore radicale, Frammartino invita lo spettatore a inabissarsi in un film esattamente come fa abitualmente al cospetto delle sue celebri installazioni. Sulle tracce di una vocazione panica e terragna che ricorda l’ex osannato Franco Piavoli (“Il pianeta azzurro”), è dunque opportuno predisporsi alla vera e propria esplorazione portata a termine in “Il buco”; risultato, in pratica, di una serie di sofisticate saldature operate per riandare con la mente e il cuore a due eventi realmente accaduti sessant’anni orsono ovvero la discesa degli speleologi nella caverna del Buco di Bifurto sulle pendici del Pollino e la coeva costruzione del milanese Pirellone di Giò Ponti. Si percepisce subito un certo schematismo ispiratore – la ciclicità della natura contro la burbanza antropocentrica, il primitivismo rurale contro la modernità predatrice, il ricco nord contro il povero sud- ma la complessa e preziosa eterogeneità dei materiali impiegati, in primis la fotografia digitale di Renato Berta, riesce via via a valorizzarsi e poi a integrarsi in un viaggio spazio-temporale d’insolita motivazione e soprattutto totale dedizione. Se il suo precedente film “Le quattro volte” ipotizzava una riflessione sulla circolarità del tempo non lontana dalla teoria nicciana dell’eterno ritorno, in quest’ultimo esperimento trans-narrativo la verticalità spaventosa della grotta (683 metri) sembra invece assegnare simbolicamente ai protagonisti, ma anche agli spettatori l’arduo compito di sfidare l’ignoto, identificare il non identificato, esorcizzare il terrore del buio. È peraltro paradossale che nel suo arrovellarsi -talvolta sin troppo- su sé stesso, il Malick milano-calabrese, ricercatore per immagini (virate spesso al nero) e musica (il canto del bovaro alle mucche) tema alla fine di ritrovarsi colpevole addirittura di “colonizzazione”. A furia di esorcizzare le sicumere dell’homo faber e l’avventura come performance epica, Frammartino potrebbe, insomma, scontare proprio quello che addita come il peggiore dei vizi del cineasta o dell’artista in generale ovvero l’assoggettarsi a una custodia ideologica.

 

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