Pubblicato il 15 Settembre 2021 | da Valerio Caprara
0Qui rido io
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Lasciamo perdere il resto, altrimenti si aprono le cateratte. Parlare di Napoli nell’ottica cinema è invece la cosa più facile e più difficile del mondo: guardi da una parte e t’immergi in una galassia di storie, scenari, autori ed attori che conduce all’estasi dello spettatore; ti giri dall’altra e rischi di essere soffocato da una carovana di tir carichi di paccottiglia tronfia, tifosa e di bocca buonissima. Sarà per questo che incuriosisce non poco la diffusione, all’interno e all’esterno, di una città mondo com’è indubbiamente la nostra, di un metro di giudizio reversibile: benissimo la risata, la battuta e i panorami paradisiaci e malissimo la paura, l’assalto del branco e l’omertà criminale o eventualmente l’opposto. Calcolando quest’ampia esperienza dell’argomento Mario Martone è stato, dunque, agile e coraggioso nel dedicarsi a una composizione integralmente, filologicamente, affettuosamente partenopea applicandovi un tocco elegante, un passo vivace, un’atmosfera coesa e una fedeltà a temi strettamente legati al palcoscenico che, grazie all’alto livello di scenografia, fotografia e soprattutto corredo musicale, si ritrova perfettamente in sintonia con le specifiche esigenze dello schermo. Eduardo Scarpetta che in “Qui rido io”, presentato ieri alla Mostra, s’erge al centro di una bella prova corale di recitazioni in un vernacolo temperato e affabile, è del resto una personalità con cui un enfant dupays doveva giocoforza fare i conti, il Maradona della Belle Époque, il guitto d’umili origini reso ricco dall’idolatria del pubblico, l’inventore della maschera famelica di Felice Sciosciammocca in grado addirittura d’inerpicarsi sullo stesso piedistallo di Pulcinella e di sfiorare l’insuperabile (al cinema) futura grandezza di Totò. Ma soprattutto –ed è in questo senso che il regista supportato dalla consorte sceneggiatrice Ippolita di Majo s’è mosso per reggere la sfida senza cedere all’agiografia o al bozzetto- una sorta d’avido e prepotente patriarca, un campione dell’ipocrisia neoborghese allevato nella promiscua e equivoca riserva indiana delle compagnie teatrali, un genio “nature” votato ad afferrare la vita con i denti e le palle, un’icona affascinante e repulsiva a cui fanno capo i pilastri espressivi di un film gradevole –ci si perdoni il vezzo- per popolo e intellettuali.
La paternità biologica e quella artistica, in effetti. Servillo sa che deve camminare sul filo, non cedere alle lusinghe della propria acclarata onnipotenza, scavare nelle anse delle performance e toccare i gangli, magari dolenti, del personaggio che soffre dietro le luci della ribalta perché deve trasmettere un patrimonio all’erede giusto –in platea nessuno dubiterà che quel ragazzino spasmodicamente attento si chiami Eduardo- senza curarsi delle gerarchie consolidate o delle manovre delle più o meno legittime procreatrici. Missione, guarda caso, riuscita anche grazie ai fili nascosti che Toni il campione sa tendere tra le scene madri, le pause anche impercettibili di ripiegamento psichico e diplomatico e i movimenti e i dialoghi assegnati dal demiurgo al resto del caravanserraglio. L’espediente narrativo che si riferisce a una delle poche sconfitte patite da Eduardo I (la scadente parodia di D’Annunzio che diede indirettamente vita alla prima querelle legale sul diritto d’autore nel nostro paese) poco aggiunge alla qualità di “Qui rido io”, titolo che riesce nella non facile impresa di rievocare al di là delle repliche di routine la fragranza del filone d’anteguerra, “La contessa azzurra” di Claudio Gora e addirittura “Carosello napoletano”, il massimo esempio di rappresentazione euritmica e armonica dell’odiosamata metropoli.