Pubblicato il 15 Settembre 2021 | da Valerio Caprara
0FALLING/IL GIOCO DEL DESTINO
C’è in giro voglia di film tradizionali, ben fatti, interpretati da attori solidi e dedicati a tematiche attuali. Tutto sta, però, a vedere se dopo il doping della Mostra di Venezia che s’annuncia ottimo e abbondante, la pandemia permetterà al pubblico di tornare a cercarli nelle sale… In caso positivo farà la sua discreta figura “Falling. Storia di un padre”, l’esordio dietro la macchina da presa dell’ottimo Viggo Mortensen, fortunatamente presente sullo schermo anche nell’abituale ruolo di protagonista: diciamo fortunatamente perché sia il copione, sia lo svolgimento del film resterebbero infossati nel solco di un dignitoso dramma familiare se Mortensen non garantisse quel surplus che solo un ristretto numero di professionisti può a piacimento sciorinare. Marchiato dal tipico gusto dei selezionati al festival “impegnato” americano Sundance, lo scenario claustrofobico vi insegue, infatti, la rabbiosa insofferenza del vecchio Willis (l’anch’esso ottimo Henriksen) alla situazione in cui l’ha condannato un’incalzante demenza senile: non potendo più vivere da solo dovrà coabitare col figlio John (Mortensen), omosessuale insediato in un confortevole abitazione di Los Angeles insieme al compagno Eric e alla loro figlia adottiva. Facile prevedere che lo scontro animato da vecchi rancori e dal rifiuto del padre di riconoscere la normalità della famiglia arcobaleno di John porterà a un concertato di battibecchi e urlacci, dispetti puerili e pazienti tentativi di riavvicinamento: altro che il citato coming of age western di “Il fiume rosso”, qui a dettare la linea e a repertoriare gli ambienti è soprattutto il classico psicologismo dei film con James Dean o Montgomery Clift in cui l’elemento morboso diffondeva il suo retrogusto asprigno nei dialoghi allusivi e le scene madri isteriche. Tutto funziona a scartamento ridotto, a conti fatti, per la moderata soddisfazione di spettatori moderatamente interessati.
Bellissimo, al contrario, nonostante la sua ispirazione squisitamente cerebrale, “Il gioco del destino e della fantasia” del quarantatreenne Hamaguchi (vincitore con questo film dell’ultimo Orso d’argento a Berlino e grazie a “Drive My Car” anche della migliore sceneggiatura a Cannes) che arpeggia da par suo sui toni di tre racconti autonomi dedicati agli intrecci del destino con l’immaginazione e viceversa. In “Magia” Meiko capisce dai racconti della migliore amica che il ragazzo che la sta conquistando è il suo ex con cui ha rotto un anno prima. In “Porta spalancata” (il capitolo più riuscito e insinuante, vagamente evocativo della seduzione per interposta persona congegnata da Rostand per il malcapitato Cyrano de Bergerac) uno scrittore e professore universitario di mezz’età si ritrova alle prese con la maligna trappola allestita per vendetta da un suo allievo bocciato; in “Ancora una volta”, una funzionaria rimasta disoccupata si concede una rimpatriata con gli ex colleghi dell’università. Come si capisce nessuna insistenza espressionistica, nessuna ricerca di clamori extra testuali, nessuna costrizione tematica: con il suo imprinting tutt’altro che frigido nonostante sia conforme alla nota riservatezza nazionale, Hamaguchi gioca un torneo di slidingdoors intelligente ed elegante con i personaggi attraverso dialoghi limpidi e fluidi e una letterarietà che sfiora appena i territori occupati dall’acclamato e ormai invasivo Murakami: la presuntà realtà, qualora davvero esista, non ha dunque diritto di affermarsi come un imperativo categorico assegnatoci d’ufficio da un’entità imperscrutabile.Abbiamo lasciato di recente Tokyo dipinta dai colori fiammeggianti dell’Olimpiade, adesso vale senz’altro la pena di riscoprirla scomposta e ricomposta sullo schermo dai frammenti del discorso amoroso tratteggiati dalle sfumature all’acquarello di un cineasta eccezionale.