Pubblicato il 1 Maggio 2021 | da Valerio Caprara
0Oscar 2021
Vi siete liberati per qualche ora dall’angoscia della pandemia?
Vi siete un po’ lasciati andare a una futile allegria? Avete dimenticato di compulsare il catalogo di disgrazie che affliggono la vita? Ciò che vi meritate è un film da Oscar, uno di quelli che hanno trasformato la Notte delle stelle in una cerimonia pensosa e corrucciata e l’assegnazione delle statuette in un rito di purificazione e redenzione delle vere o presunte magagne americane…
Dunque tutto come previsto, tutto sotto controllo, tutto patteggiato giocoforza da Hollywood con le ex arcinemiche Netflix & co. produttrici e distributrici di film e serie tv on line (senza le quali il lotto dei candidati sarebbe stato in partenza striminzito): un quadro perfetto per il trionfo di “Nomadland” che, battendo alquanto ingiustamente l’altro favorito, il raffinatissimo e wellesiano “Mank”, porta a casa il titolo di miglior film, migliore regia e migliore attrice protagonista, ossia la McDormand anche coproduttrice. La ballata della cinese immigrata Zhao dedicata al vagabondaggio per necessità dei malcapitati distrutti dalle crisi finanziarie, i cosiddetti workamper, è uno di quei film che sembra d’avere visto cento volte, supportato com’è dalle espressioni e le pose stoiche e indurite di un’attrice tanto brava da rischiare l’imitazione di sé stessa: quando lo spettatore sente di averne abbastanza perché la sceneggiatura non ha abbastanza storie per riempire due ore e barcolla nel vuoto descrittivo, scatta il ricorso automatico al naturalismo vintage della bellezza del paesaggio e del fascino della wilderness, anch’esso, peraltro, estratto da un’intera biblioteca letteraria e una cospicua cineteca autoriale (dai classici alla “Furore” al neo-nichilismo giovanile modello “Into the Wild”).
Hopkins è realistico e toccante come solo lui può esserlo in “The Father”, ma diremmo senza volere apparire cinici che l’incarnazione di un malato di Alzheimer sembra più una prova a effetto da scuola di teatro che quella del migliore attore di una tormentata e inespressa stagione cinematografica. Così come rientrano nella logica del politicamente corretto il premio per i migliori non protagonisti assegnato al nero Kaluuya, copia edulcorata del mitico leader delle Pantere nere (paradossalmente fuori posto nella messa cantata degli Oscar 2021) e alla coreana Youn, la simpatica vecchietta dell’appena discreto “Minari”. L’Oscar riservato agli stranieri è andato a “Un altro giro”, un inno all’ebbrezza in forma di parabola grottesca centrato con qualche contorsione ideologica e terapeutica sul devastante problema dell’alcolismo, soprattutto giovanile, in Danimarca.
A questo punto bisognerebbe unirsi al coro dei delusi per l’assenza dell’Italia: sia pure rammaricati per l’ostracismo dato agli stupendi costumi e make-up del “Pinocchio” di Garrone e (molto meno) alla canzone “Io sì” di Laura Pausini, pensiamo invece di potere essere anche noi appagati. Sulla passerella di questa edizione “in mascherina”, infatti, sventola idealmente il vessillo della Mostra di Venezia dove erano stati presentati in anteprima mondiale una sfilza di titoli poi insigniti dell’Oscar, da “Birdman” a “Gravity”, da “La La Land” a “Roma” e in particolare “La forma dell’acqua” e, appunto, “Nomadland” che vi hanno addirittura vinto il Leone d’oro.