Recensioni

Pubblicato il 10 Febbraio 2021 | da Valerio Caprara

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Lei mi parla ancora

Lei mi parla ancora Valerio Caprara
soggetto e sceneggiatura
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario: Dal libro omonimo di Giuseppe Sgarbi (1921-2018), il racconto del rapporto difficile, ma alla fine intenso tra un vegliardo lacerato dalla morte dell'amatissima moglie e lo scrittore incaricato dalla figlia editrice di lenirgli la pena aiutandolo a recuperare pensieri e ricordi

3.3


Non c’è direttamente Guido Gozzano in «Lei mi parla ancora», non fosse altro perché il luogo in cui si dipanano le visioni autobiografiche è una casa-museo di campagna traboccante di sculture, arazzi, dipinti d’ immenso pregio, altro che «buone cose di pessimo gusto». Però il poeta crepuscolare è ancora una volta rinvenibile nel dna di Avati che ha trasposto il libro omonimo di Giuseppe (Nino) Sgarbi con la grazia insolente e il tratto in apparenza esplicito, ma in realtà oscuro, inquieto, instabile con cui sempre più predilige sovrapporre le suggestioni del tempo storico alle alchimie di quello filmico. Se si entra in sintonia con il climax narrativo dell’ incontro/scontro tra il novantenne appena diventato vedovo e l’ editor affiancatogli dalla figlia editrice per lenirgli la pena, se ne apprezzerà il linguaggio drammatico, complesso, non ilare ma neppure funereo: il cattivo umore e il distratto disincanto del ghost writer si frantumeranno, in effetti, nelle sottili variazioni del rapporto finendo col fargli sembrare naturale che il patriarca dimezzato insegua la chimera della vita oltre la morte finanche dialogando con l’amata defunta.

È l’ennesima sfida di cuore e di cervello quella che il regista, ancorché stavolta non autore del soggetto, organizza
sullo schermo, raffreddando la collezione di «sintomi» poetici, sentimentalistici, languidi dei ricordi di casa Sgarbi con una temperatura stilistica calcolata e ambivalente: da un lato offre agli spettatori un’uscita drammaturgica, per così dire, classica con la citazione dell’austero capodopera di Bergman proiettato in un cineclub di fortuna; dall’altro si riaggancia a corde più familiari e consone alla propria vena ereditate dal fascino misterioso e inquietante del cinema girato a Ferrara o nei pressi del Po e le sue valli da Antonioni, Vancini, Lattuada, Soldati e tanti altri.

Il lungo addio a una persona cara che dopo la fine sembra essere maggiormente presente ovvero la corda più ardua da fare risuonare senza derogare dall’asciuttezza dei toni e dare fiato agli antipatizzanti dell’Avati touch è, del resto, affidata alle magnifiche presenze della Ragonese e la Caselli e soprattutto a due fuoriclasse come Pozzetto, in grado di sprigionare puro pathos solo con uno scatto della testa, una postura immota, una parola sussurrata e Gifuni, l’ attore che sappiamo capace di mimetismi virtuosistici qui padrone di un’intensa naturalezza.

 

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