Pubblicato il 22 Dicembre 2020 | da Valerio Caprara
0La morte di Kim Ki-duk
Io sono l’acqua… semplicemente fluisco. Non ci sono sistemi o ideologie”
Sembrano materia del copione di una delle sue storie autolesionistiche ed esacerbate, ma purtroppo le circostanze della repentina scomparsa a sessant’anni da compiere il 20 di questo mese del cineasta di culto sudcoreano Kim Ki-duk risultano davvero inquietanti nonostante la conferma immediata dell’interprete Daria Krutova e quella tardiva della famiglia rimasta a Seul. La prima notizia del decesso, infatti, è stata divulgata dal sito lettone Delfi.lt grazie al quale si sono potuti in qualche modo riallacciare i fili della funesta trasferta: l’autore amatissimo a giusta ragione dalle ultime generazioni di cinéfili nonché habitué dei festival più prestigiosi avrebbe, infatti, dovuto girare il suo ventiquattresimo titolo in Lettonia grazie a una coproduzione tra lo stato baltico e il suo paese non andata a buon fine per un cavillo burocratico in prima istanza. Tornato a Riga attorno al 20 del mese scorso aveva pensato, secondo quanto ha dichiarato il direttore del locale Art Doc Fest Vitalijs Manskis, di affittare una casa nella città balneare a ovest della capitale Jurmala, ma all’appuntamento fissato per chiudere l’affare non si era presentato. Dopo alcuni giorni, i collaboratori e i funzionari hanno cominciato a cercarlo preoccupati, ma ne avevano perso completamente le tracce fino a quando, appunto ieri, il sito ha rivelato che era finito ricoverato in ospedale a Riga contagiato dal Covid e lì era deceduto all’1,20 di notte per le tristemente note complicazioni della malattia.
Nato in provincia nel 1960 e trasferitosi a Seul da bambino, Kim Ki-duk fa l’operaio e poi si arruola in marina a causa delle modeste condizioni economiche, ma ben presto la vocazione per l’arte lo spinge a soggiornare a Parigi dove comincia a dipingere e vendere i suoi quadri, ma soprattutto a scrivere sceneggiature per il cinema. Rientrato in patria nel 1992 vince qualche premio di settore prima di debuttare quattro anni più tardi con “Coccodrillo”, apologo disturbante in cui un poverocristo aspetta sotto il ponte di un fiume i cadaveri dei suicidi per depredarli dei loro residui averi. Il successo si amplifica grazie ai racconti parimenti (dis)umani “Wild Animals” e “Birdcage Inn”, mentre in Italia monta subito sulla cresta dell’onda con “L’isola”, sgradito alla critica di papà quando fu presentato alla Mostra di Venezia del 2000 per la sua natura di gioco a intarsi basato sulla percezione della prossima e inevitabile autodistruzione dei rapporti sessuali e societari. Con il primo film uscito nel nostro circuito, il lirico e onirico “Primavera, estate, autunno, inverno…”, fa credere d’avere rinunciato alla violenza peraltro mai gratuita delle sue fantasie in nero, ma i successivi “La Samaritana” (Orso d’argento a Berlino), “Ferro 3 – La casa vuota” (Leone d’argento a Venezia 2004, forse il suo capolavoro), “L’arco”, il documentario “Arirang” (Premio Un Certain regard a Cannes 2011) e “Pietà” (Leone d’oro a Venezia 2012) piuttosto accentuano la sua irrefrenabile energia, il suo pessimismo pur tuttavia affascinato dalla lotta darwiniana dell’umanità per la sopravvivenza e la sua vocazione a sublimare il dolore di esistere in una nient’affatto simbolica tortura dei corpi. Travolto da reiterate accuse di molestie nei confronti di alcune attrici e messo all’indice nonostante la loro parziale archiviazione, forse si è preparato da par suo la strada per uscire di scena triste, solitario y final.