Pubblicato il 18 Ottobre 2020 | da Valerio Caprara
0Mi chiamo Francesco Totti
Una sagoma incappucciata nei sotterranei in penombra dello stadio. Proprio come nel migliore film italiano dell’ultimo decennio si materializza sullo schermo una sorta di assorto e accigliato nume tutelare della Capitale, ma il suo nome non è quello fantasy di Jeeg Robot bensì quello del protagonista di Mi chiamo Francesco Totti, l’evento clou della Festa di Roma che scocca una freccia nel cuore anche di chi del calcio se n’infischia. L’agiografia e la retorica, va da sé, inoculano veleno nei documentari ad personam, ma un regista duttile e ispirato come Alex Infascelli non ha corso questi rischi nel corso dell’avvincente ritratto che ruota su una serie di flash dello sport più popolare per ricondurre le tappe biografiche e i dati di cronaca negli intimi recessi di un percorso umano felice e infelice, lineare e imprevedibile, spavaldo e impaurito, speranzoso e depresso come quello di noi tutti. Tenendo peraltro ben presente la differenza, al contrario inimitabile, costituita dal rapporto simbiotico e viscerale che l’ex biondino di Porta Metronia ha potuto e saputo stabilire con l’anima scettica e mutevole di una metropoli moderna gravata dal peso della sua millenarietà. Insomma ciò che di più intenso emerge dal puzzle montato alla grande dall’autore con Emanuele Svezia è il fatto che, dietro la standardizzazione operata dall’impero dei media e del denaro, il segreto del calcio rimanga in qualche modo abbarbicato alla semplicità di una passione e allo slancio fanciullesco che si rispecchiano nella storia (in)finita di Francé.
Corre anche l’obbligo di non nascondere agli occhi dei lettori e degli spettatori il sospetto del conflitto d’interessi esistente tra recensito e recensore, la ragione per cui si lascia libera la valutazione sul… trascurabile dettaglio dell’idolatria di quest’ultimo per il campione e i suoi colori. Il fatto è che la psicologia e la scala dei valori di chi ha la disgrazia -o da un certo punto di vista la fortuna- di non tifare per la Juventus (un altro tipo di disgrazia), il Milan o l’Inter risultano oltremodo contorte e tormentose: per tali connazionali, infatti, che siano critici o impiegati del catasto, l’appartenenza conta più delle statistiche superlative e l’afflato mitico-simbolico più delle vetrine ricolme di trofei. Si potrà subito capire, allora, anche prima di verificare di persona, come gli spezzoni delle performance giovanili, dei drammatici incidenti di gioco, delle fatidiche uscite tra l’attonito e l’arguto (“’Sto tempo è passato… Anche per voi però”), di alcuni riprovevoli gesti di reazione o delle inedite riprese domestiche contino quasi allo stesso modo dei gol e degli assist e confluiscano perfettamente nello psicodramma, peraltro ricostruito in modo sintetico e pudico, della famosa serata dell’addio al calcio all’Olimpico che siamo certi abbia commosso anche i tagliagole dell’Isis e i kamikaze ceceni.
Infascelli ha lavorato, insomma, di fino su materiali “grossolani” e infiammabili per definizione, tenendo la barra dritta su due rotte: la prima, suggerita, dal grande scrittore calciofilo Javier Marìas, è che il calcio solo apparentemente è puro presente e non ha memoria perché la vittoria di ieri non serve a niente di fronte alla sconfitta di oggi e che invece ci sono occasioni in cui, proprio come questa, si permea di passato e di ricordi, si addensa e si tende, ispira sentimenti complicati e il desiderio e la nostalgia mano a mano diventano più tortuosi, rugosi, spezzati, impuri e malinconici; la seconda è quella che illumina d’immenso gli assi del pallone – da Riva a Baresi e Maldini, da Maradona a Facchetti e Zanetti, da Platini ad Antognoni- inscindibili dalla maglia che hanno indossato a vita o nella parte più significativa della carriera.
Nel documentario secondo noi spunta qua e là anche qualche difetto: perché, per esempio, non risuonano mai le note di “Grazie Roma”? Quale presunta minaccia di banalità o quale spiacevole inghippo hanno fatto sì che non ci fosse spazio per l’inno più bello mai scritto al mondo per un club? O anche perché non supportare la strizzatina d’occhi del finale con due canzoni meno stridenti di quelle inopinatamente scelte? In fondo, per il momento crudele del distacco bastava distillare qualche goccia d’umore dolceamaro dalla poesia scritta di getto dall’attore del momento Pierfrancesco Favino: <De che sei triste? Come ma de che? Nun c’ho mai avuto un regno, ma io c’avevo un Re/Passavano l’inverni, venivano l’estati. La sabbia sul giornale, i “Chi se so’ comprati?”/L’invidia del momento pijava pure a me, ma me durava un mozzico perch’io c’avevo il Re/E vede’ il Re del calcio co’ addosso i tuoi colori, pure se giochi e perdi te fa passa’ i dolori/E lo voleva il mondo ma ce l’avevi tu. Ecco perché so’ triste, perché nun ce l’ho più>.