Pubblicato il 7 Luglio 2020 | da Valerio Caprara
0Le colonne sonore di Ennio Morricone
Più di trecento colonne sonore costituiscono un corpus inarrivabile, ma al di là delle loro qualità ciò che ha reso sublime Morricone è il livello del rapporto istituito con le immagini e le storie di film e generi diversissimi tra loro. La musica, infatti, non è solo uno degli ingranaggi peculiari del cinema, bensì un mondo compiuto perché quando s’affermano sensibilità e talento dell’autore i suoni vi diventano vivi, veri, comunicativi riuscendo a toccare una corda lieve e popolare e a raggiungere in ogni epoca, anche attraverso tecniche sofisticate, le emozioni più dirette degli spettatori. Viene addirittura voglia di domandarsi se –grazie a personalità come quelle di Morricone, Rota, Steiner, Waxman, Rozsa, Williams- la parte più vitale della musica a partire dalla seconda metà del Novecento non stia nelle canzoni e nelle colonne sonore piuttosto che nell’avanguardia con tutto il suo frigido intellettualismo. E’ vero che ai compositori leggeri e da film manchi (ma non sempre) la capacità di sviluppare la “grande forma”, tanto è vero che proprio Morricone non mancava mai di fare trapelare il frustrante rovello che lo portava a snobbare gli amatissimi hit e a contrapporgli pervicacemente le proprie partiture da musicista “serio”, se non sperimentale e le proprie esecuzioni da direttore d’orchestra. Come possono ancora oggi confermare il gruppetto di cinefili docenti e frequentanti della cattedra di Storia e critica del cinema dell’“Orientale” che nel giugno del 1996 organizzarono un memorabile concerto diretto dal maestro insieme al figlio Andrea alla Cappella Pappacoda nell’ambito di un omaggio a Tornatore. Però questo è un altro discorso da cui, peraltro, potrebbero nascere imprevedibili considerazioni (Strauss della succitata grande forma non sapeva che farsene, ma davanti ai suoi valzer Brahms si ritrovò a dichiarare: “Non sono miei, purtroppo”).
Ciò detto risulta assai aleatorio il tentativo di ritagliare da un catalogo comprendente la storia del cinema italiano dal 1961 di “La voglia matta” al 2016 di “La corrispondenza” le sequenze diventate di culto o comunque parte sostanziale del fascino del film grazie all’integrazione o il rafforzamento ottenuti con la musica. Tra le più lontane non possono mancare quelle di “Il federale”, in cui le tragicomiche peripezie de fascista Tognazzi che deve scortare a Roma un prigioniero badogliano vengono scandite da un rigido tempo di marcetta a cui si sovrappone l’incedere goffo degli ottoni in corrispondenza delle esilaranti acmi sarcastiche (lo sprofondamento dell’anfibio nel fiume, il finale dei due in laceri abiti borghesi che si separano a ruoli invertiti sullo sfondo di rovine e distruzioni). Impossibile, peraltro, non esaltarsi scorrendo per la millesima volta i titoli di testa di “Per un pugno di dollari” in cui l’inedito e personale impianto compositivo affida le sagome animate del neowestern ai fischi, all’arghilofono, all’armonica a bocca e alla chitarra elettrica progressivamente innestati su un tappeto di fruste schioccate e incudini battute. Un florilegio d’invenzioni sonore che culminano nelle entrate in scena del pistolero Joe, ma che anche anche nei momenti di stallo precedenti le sparatorie s’inventano la suspense della modulazione del fischio o dei pizzichi della lamella dello scacciapensieri. Su un podio ideale sale di slancio, però, “L’estasi dell’oro” in “Il buono, il brutto e il cattivo”: la corsa di Tuco/Wallach ebbro di gioia tra le lapidi del cimitero di Sad Hill immerge lo spettatore in uno dei più alti momenti di concentrazione audiovisiva tramandati dal cinema in cui si fondono a ritmo forsennato i delicati vocalizzi di Edda Dell’Orso, le vocine beffarde e il crescendo percussivo. Senza sottovalutare “Giù la testa”, la cui colonna passa con eguale potenza dal mitico e soffice Sciòn Sciòn alla “Marcia degli accattoni” che fa emergere la grossolanità del personaggio Juan interpolando un rutto (“Uhà”) al posto delle pause. Grandiose anche le soluzioni escogitate per l’apologo pasoliniano “Uccellacci e uccellini”: un impasto volutamente schizofrenico di violini e mandolini, colpi di grancassa, campane, nacchere, tube e chitarre elettriche già utilizzato nei titoli di testa cantati da Modugno (unico esempio a nostra conoscenza perché anche Godard e Truffaut lo hanno fatto, però facendoli soltanto leggere).
Nel 1970 il maestro accetta di costruire sorprendenti pastiche per la trilogia horror dell’esordiente Argento, trionfatrice al botteghino ma esecrata dalla critica ufficiale e dunque diventata prova a carico dell’”eccessiva facilità e delle concessioni commerciali” che inficerebbero la qualità della sua opera, un giudizio a suo tempo diffuso tra gli specialisti di musica da film che allora come oggi ci appare frutto di una mentalità codina nonché una metodologia analitica e un armamentario teorico decrepiti. Difficile, al contrario, provare brividi più terrorizzanti assistendo al fraseggio destrutturato o le angosciose virate jazzistiche che preparano l’assalto del killer alla povera Suzy Kendall in “L’uccello dalle piume di cristallo” e all’incauta domestica Marisa Fabbri in “Quattro mosche di velluto grigio”. Nello stesso periodo va ricordato un altro capolavoro dovuto all’intesa con Elio Petri, lo score di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” al cui culmine si pongono l’arrivo dell’ossessivo, dissociato commissario interpretato dal gigantesco Volonté a casa dell’amante e il finale con lo stesso ammansito e addestrato dall’occulto sinedrio del Potere. Alla rinfusa, scontata l’impossibilità d’esaurire il censimento, meritano un surplus di gratitudine almeno il melodismo popolaresco che sottolinea la sequenza dello sciopero di “Novecento” con le donne stese a terra, i contadini col forcone e i soldati a cavallo che incombono sul greto, l’assorto e sognante tema di “Mission” con padre Gabriel che suona il flauto nella foresta attorniato dagli indigeni Guaranì armati e minacciosi, i titoli di testa di “Gli intoccabili” e il finale di “Nuovo cinema paradiso” con Perrin che s’incanta al cospetto dei fotogrammi d‘amore a suo tempo censurati (per dettagliare i termini del profondo e intenso rapporto che ha legato Morricone a Tornatore e viceversa non basta certo un articolo). Su tutto e tutti brilla, però, la creazione più fulgida ovvero il romanticismo intriso di nostalgia della musica di “C’era una volta in America” che -basti pensare a Noodles fuggiasco alla stazione o al “Deborah’s Theme” con l’omonima donna-miraggio perduta per sempre a causa della sua brutale ossessione- non rientra in alcun canone perché davvero si modella sul film fino a sfociare in un rarissimo processo d’inscindibile fusione.