Pubblicato il 21 Maggio 2020 | da Valerio Caprara
0I film di Michel Piccoli
Nella sterminata filmografia di Michel Piccoli i ruoli a lui più consoni sono quelli dell’ambiguo uomo d’ordine dei film di Bunuel e il borghese composto nell’aspetto e i modi che pratica con disinvoltura ogni sorta di strane perversioni. Proprio in questa seconda tipologia rientrano “Dillinger è morto” (1969) e “La grande abbuffata” (1973) ovvero i film che ne tramandano le incarnazioni per noi fondamentali: nel primo, col girovagare notturno e gli atti gratuiti di un anonimo ingegnere a casa propria che precedono la fuga su un veliero da favola, Ferreri gli affida il compito di contrapporre una risposta nichilista alle ubriacature rivoluzionarie sessantottine; mentre nel secondo, lo stesso regista milanese gli fa esplodere le viscere al culmine dell’orgia allestita in una villa nei dintorni di Parigi da un quartetto di amici decisi a suicidarsi con un’overdose autodistruttiva di cibo e sesso. Il suo portamento misurato, i suoi gesti naturali e la sua espressione sardonica ne avevano fatto a lungo l’interprete ideale per rendere ambigua la figura del bravo cittadino, un cliché messo a punto sin dall’esordio sul grande schermo nel primo dopoguerra; solo a partire dalla notorietà acquisita grazie al ruolo dell’arrendevole marito della Bardot in “Il disprezzo” di Godard (’63) e progressivamente incrementata dall’affermazione dei film del sulfureo maestro Bunuel (da “Il diario di una cameriera” a “Bella di giorno”, da “La via lattea” a “Il fascino discreto della borghesia” e soprattutto “Il fantasma della libertà”) il figlio di italiani emigrati in Francia ed ex allievo della compagnia Renaud-Barrault impara a variare la propria immagine adattandola alle esigenze di registi sempre prestigiosi ma d’ispirazioni e ambizioni assai diverse. La “normalità”, vagamente sgradevole dei suoi personaggi rende così naturali, quasi inevitabili i gesti e le parole di ulteriori, intensi personaggi come l’ispettore di dogana di “La guerra è finita” di Resnais, il frustrato e psicotico giudice di “Salto nel vuoto” di Bellocchio o il francese insabbiato in Marocco di “Oltre la porta” della Cavani.
Chiaramente attirato dai suddetti versanti oscuri, al limite della follia, la stravaganza o la morbosità, dei sentimenti e le personalità umane sulla scia dei pigmalioni Bunuel e Ferreri, Piccoli si esprime, per esempio, a livelli strepitosi in film come “La calda preda” di Vadim (’66), “Trio infernale” di Girod (’74) o “Grandezza naturale” di Berlanga (’74). Ciò nonostante la sua versatile classe e la sua voglia di sperimentarsi e di non scadere nella routine lo fanno diventare il riconosciuto e, al solito, ineccepibile testimonial della commedia agrodolce alla francese, addirittura memorabile nel gioco di sfumature minimaliste richiesto da un super artigiano come Sautet in “L’amante”, ’70 o “Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre”, ’74.
Costantemente attirato dal teatro, non ha mai trascurato d’esibirsi in palcoscenico senza, peraltro, ottenere successi paragonabili a quelli legati al cinema, se si escludono un “Misantropo” portato in tournée e una “Fedra” allestita per il prestigioso TNP. Si è cimentato con esiti modesti anche con la regia, esordendo con “Alors voilà” e continuando con “La plage noire” e “C’est pas tout à fait la vie dont j’avais revé”, ma non riuscendo appieno neppure come sceneggiatore dell’onirico “Il generale dell’armata morta” di Luciano Tovoli (’83) tratto dal romanzo omonimo di Ismail Kadare. Amato dai nostri registi e innamorato del nostro cinema è stato sempre in sintonia con i tanti registi (da Corbucci a Scola e Castellitto) che, aggiungendosi al nume tutelare Ferreri, gli hanno proposto soggetti e personaggi di notevole caratura. Culminanti, va da sé, nel Santo Padre protagonista di “Habemus Papam” di Nanni Moretti, perfettamente modellato sul caustico ed estroso universo del regista romano.