Pubblicato il 13 Ottobre 2019 | da Valerio Caprara
2La scomparsa di Croccolo
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“Bellezza mia” (voce in falsetto e tonalità affettata): l’eco della battuta suona tenera e beffarda, anche perché dovi lo trovi più in una Napoli perennemente smarginata un gagà come quello interpretato in “Miseria e nobiltà”? Certamente Croccolo ha incarnato il meglio della scuola napoletana, della sua verve, della sua naturalezza anche quando era resa ostica dal trasferimento sulla superficie, tecnicamente più neutra, del grande schermo. Certamente ha lavorato fianco a fianco dei giganti della drammaturgia glocal, primi fra tutti Totò, Eduardo e Peppino. Certamente è stato attore nel senso più pregnante del termine, sprovvisto, cioè, degli additivi glamour più smaccati, dalla capricciosità alla presunzione, dal vizio della mondanità al cipiglio intellettualistico. Certamente ha praticato la cosiddetta “multimedialità” che alcuni teorici trattano come primizia culturale e che invece, ripercorrendo la sua carriera, si conferma una qualità antica. Certamente le sue performance costituiscono una pietra miliare nella storia -in Italia particolarmente gloriosa- del doppiaggio. Tanto è vero che proprio ieri sera a Savona, nel corso della serata conclusiva della XX edizione di “Voci nell’Ombra”, l’unica e prestigiosa rassegna nazionale dedicata all’arte del doppiaggio diretta da Tiziana Voarino, un commosso applauso ha omaggiato la memoria di colui che fu l’unico autorizzato da Totò a doppiarlo. Senza dimenticare, ovviamente, gli eccellenti risultati ottenuti dal giovane attore doppiando Ollio, Stanlio o addirittura tutti e due insieme in un consistente numero di classici.
Però la riflessione decisiva, suscitata da questa triste dipartita da un’esistenza, peraltro, lunga e pienissima, riguarda lo stato delle cose nel microcosmo un tempo dominante della sala buia. Non si tratta, ovviamente, di giocare a fare i cinéfili bulimici esaltando come se fossero capolavori d’arte e d’essai i filmettini anni Cinquanta clonati dal teatro di rivista come “I cadetti di Guascogna”, “Bellezze in bicicletta” o “La paura fa 90”; affibbiando valori reboanti al patetico personaggio del pescatore Totonno nella fiction “Capri” (in tv ha fatto cose migliori e con maggiore impegno); oppure iniettando il veleno della rivalutazione cineclubistica in commedie all’arsenico sociale modello “Come imparai ad amare le donne” di Salce o “Mi manda Picone” di Loy. Il fatto è che Carlo -amabile, modesto e nient’affatto naif cesellatore di ruoli piccoli o grandi- ha agito per gran parte del suo percorso all’interno di una forma di spettacolo che si autogenerava spontaneamente grazie a un flusso creativo non discriminante tra “alto” o “basso” potendo, di conseguenza, farsi onore in circa 120 film proprio perché i caratteristi di quel periodo aureo equivalevano ai tanti, troppi sedicenti protagonisti dell’asfittico scenario odierno. Le emozioni più durature l’ha probabilmente tramandate fungendo da “spalla pensante” del Principe nei cult “47 morto che parla”, “Tototarzan” e “Totò sceicco” o magari grazie ai felici incontri con il moloch De Sica per l’episodio “Adelina” in “Ieri, oggi, domani” e “Caccia alla volpe”. Ma è così che si capisce perché il Rafele di “O’ Re” (per cui vinse il David di Donatello), il cameriere di “Signori si nasce” o il bagnante svergognato di “Casotto” restano bene in vista senza accusare scompensi o rivendicare complessi accanto ai personaggi interpretati dal piccolo grande amico scomparso per Strelher (“La grande magia”) o Garinei e Giovannini (“Rinaldo in campo” e “Aggiungi un posto a tavola”).