Pubblicato il 7 Marzo 2019 | da Valerio Caprara
0Baruffe napoletane a proposito del teatro Mercadante
Tentando di raccapezzarmi, come tutti coloro che hanno a cuore le sorti culturali della nostra magnifica e tormentata città, nel vespaio di diatribe suscitate dalla scadenza della direzione di Luca De Fusco al Teatro Stabile di Napoli, mi pare il caso d’azzardare per una volta una sortita fuori della riserva della stretta competenza. Non si tratta, però, di un ghiribizzo arrogante o umorale perché la ragione dello sconfinamento sta nell’esperienza conclusa un anno fa alla Film Commission della Regione Campania: otto anni consecutivi di soddisfazioni e di successi prima come amministratore unico dell’originaria Srl a socio unico e poi come presidente della Fondazione di partecipazione costituita in capo a complicate procedure che mi hanno portato a maturare un paio di convinzioni propedeutiche e forse utili per la discussione –se di vera discussione si tratta- sul caso Mercadante.
La prima è che a certi livelli d’intelligenza politica l’automatico e un po’ sporco giochetto dello spoil system non dovrebbe essere neppure preso in considerazione: nominato dalla giunta di centrodestra dell’on. Caldoro, il sottoscritto è stato straconfermato da quella di centrosinistra dell’on. De Luca senza che mi fosse proposta alcuna abiura alla maoista. Si può dunque ritenere, come nel caso di De Fusco, che la valutazione della caratura professionale, ovviamente se abbinata alla lealtà istituzionale, possa e debba prevalere sulle eventuali spropositate smanie di egemonia. La seconda riguarda l’alquanto futile polemica sulla diffusione nazionale e internazionale, tra molti altri, anche di alcuni spettacoli firmati dallo stesso direttore: a parte il fatto che succede la stessa cosa in tutti i teatri che hanno messo un regista al posto di comando, sia pure ammettendo di paragonare ruoli diversi, ricordo senza vantarmene di non avere mai abdicato al ruolo di critico nel corso dei suddetti mandati. Non è stato facile a questo proposito fare accettare una linea che ha previsto una totale autonomia di giudizio nei confronti di film, documentari e serie tv –esattamente come hanno fatto colleghi come Della Casa o Iarussi in Piemonte e Puglia- alla cui realizzazione la Film Commission aveva dato in precedenza il massimo supporto.
Lasciando agli esperti gli indispensabili approfondimenti di taglio artistico, c’è da chiedersi su quali parametri, una volta esclusi quelli di fazioni ideologiche o, peggio, di velleitarismi rionali, ci si può orientare per andare dritti al nocciolo della questione. Al cittadino e all’appassionato risulta che l’attuale gestione abbia ottenuto la qualifica di nazionale per un teatro che in quanto a fatturato, numero di sale e dipendenti e attività collaterali era il fanalino di coda tra gli stabili italiani; moltiplicato il numero degli spettatori e il numero degli abbonati favorendone, per di più, un ricambio anagrafico, qualitativo e, per così dire, passionale; restituito il teatro classico all’incomparabile cornice del Teatro grande di Pompei dove mancava da anni; varato tra molti contrattempi (tra cui la precoce scomparsa di Luca De Filippo) il primo triennio della scuola oggi affidata a indiscusse personalità come Mariano Rigillo e Claudio Di Palma; dotato per la prima volta il teatro di un socio privato, la Fondazione Banco Napoli; raddoppiato gli spazi di agibilità permanente e di conseguenza le dimensioni della sede grazie ai progetti europei appositamente stanziati dalla Regione e al sostegno finalmente più costante della Città metropolitana a compensazione di un contributo comunale tra i più bassi d’Italia. Per non parlare dell’attenzione dei media e dell’apprezzamento della critica su cui non mi pronuncio perché nei miei ambiti non sono propenso a riconoscerne “a prescindere” la rilevanza, ma che comunque costituiscono una prova a favore del lavoro di De Fusco e del suo staff.
L’ultimo tassello che vorrei aggiungere a quello che non dovrebbe essere un puzzle su cui rompersi il capo è ancora suggerito dall’esperienza personale: il direttore di un teatro come di qualsiasi altro ente pubblico a carattere culturale non può limitarsi alle programmazioni più o meno popolari o sperimentali (sempre che tali qualifiche non siano ridotte a meri detriti di vetuste concezioni antagonistiche dello spettacolo globale), ma deve confrontarsi con le ardue sfide del management. E anche in quest’ottica nessuno può negare a De Fusco di avere fatto piani di cassa che hanno permesso di tenere aperto, proprio com’è successo anche all’agguerrito avamposto della Film Commission, un teatro talvolta rimasto in piedi a dispetto delle fredde norme finanziarie. Dispiace tirare in ballo, infine, la storia e la cronaca dell’unicum che in occasioni simili dobbiamo sbrigativamente chiamare “Napoli”: il solito sospetto è che dietro sia le emergenze inevitabili, sia i tornei parolai manchi il background della cultura dei risultati che finiscono col non contare mai perché obnubilati dalle estenuanti guerriglie tra gli enti locali e la politica politicante. Nel mondo dei sogni l’approdo dovrebbe essere una soluzione condivisa, però attenzione: nelle more della conferma o meno di De Fusco c’è vitale bisogno di una programmazione certa, di tenere la barra dritta in vista della prossima stagione. Piuttosto che assistere alla iattura dell’eterno galleggiamento sarebbe meglio andare alla conta. E così sia.