Pubblicato il 16 Agosto 2018 | da Valerio Caprara
0In morte di Carlo Vanzina
Perché non possiamo non dirci vanziniani. Ci fu un tempo in cui gli oggi ex giovani cinefili si riconoscevano nell’estremistica boutade un po’ per osteggiare l’egemonia professionale della critica di papà, un po’ per esaltare con malcelato snobismo il dna popolare e “sconsacrato” dell’arte chiave del Novecento. Al momento del dolorosissimo distacco dall’appena sessantasettenne Carlo, quello slogan provocatorio che sembrava andato inevitabilmente fuori corso –o peggio annichilito dal duello ad alta intensità polemica sul fenomeno dei cinepanettoni di cui fu considerato il “perfido” creatore assieme al fratello Enrico- torna in qualche modo attuale segnando un punto di non ritorno nella storia dello spettacolo italiano. Un universo felicemente compromesso tra arte e industria che comprende pratiche “alte” e “basse”, gioca su diversi registri, si consuma in fretta o risorge nel culto postumo, provoca o compiace, ma a dispetto dei più intransigenti tra gli adepti onora una sola, vera religione, quella del rispetto delle ragioni del pubblico. Grazie a oltre sessanta film e molte serie e miniserie tv, Carlo alla cinepresa ed Enrico alla macchina da scrivere hanno officiato a viso aperto questo rito fondatore dell’immaginario sulle orme del padre Steno, regista tra i più prolifici e amati degli anni della rinascita del cinema italiano d’intrattenimento inaridito dalla sclerosi degli ultimi anni del fascismo. Mite, colto, gentleman senza affettazione, Carlo ha retto la sfida dei suoi stessi film, restando sempre di lato alle tumultuose pochade, alle commedie sarcastiche e anche un po’ “canaille”, agli spaccati del costume italiano così incline a diventare sguaiato e cialtronesco; come nello stile dei prediletti Risi e Monicelli, quasi secondi padri artistici, facendo sì che alla filmografia dei Vanzina brothers fosse sempre garantito il piacere della libertà dello sberleffo, senza che ne derivasse il riprovevole bisogno, oggi purtroppo diffuso, di mettersi in mostra in prima persona col ditino alzato, d’impancarsi a maestri, di fare propaganda per questa o quell’altra fede, in ultima analisi di frapporsi tra gli spettatori e lo schermo.
Per non essere fraintesi è bene aggiungere che sarebbe un imperdonabile sgarbo alla memoria del cineasta e dell’amico avvolgerlo nella ragnatela dell’ipocrita retorica raccomandata dal bon ton dei necrologi. Nel diluvio dei titoli che tramandano le mutazioni, le coazioni a ripetere, i grandi e piccoli shock individuali e collettivi di un paio di generazioni, accanto ai titoli irresistibli come “Il cielo in na stanza”, “Il pranzo della domenica” o “In questo mondo di ladri” non mancano i film brutti, le fotocopie, i prodotti più “getta” che “usa”, le trame imbastite su fenomeni effimeri se non odiosi; ma nel contempo è importante riconoscere che la galleria dei loro amabili mostri non fa che ribadire l’indiavolata vitalità di quel modello di commedia che teniamo a considerare italiano tout court piuttosto che genericamente all’italiana. E’ naturale che i politologi siano pronti a scatenarsi nelle dotte controanalisi del costume nazionale di volta in volta finito nel mirino dell’irrisione vanziniana, ma per la logica e la tenuta del cinema è molto più importante, per spiegarci meglio, la scoperta e la valorizzazione degli attori che hanno sostenuto la presa e la credibilità umana dei rispettivi personaggi: la coppia De Sica-Boldi innanzitutto, ma poi Abatantuono, Greggio, Calà, Montesano e più recentemente Buccirosso e Salemme; per non parlare delle attrici, tradizionalmente escluse dal genere, dalla capostipite Vitti alla Ferrari, la Brilli, la Ramazzotti, la Bellucci, la Angiolini… Nel pragmatismo che caratterizza questa fetta del nostro cinema di cui alcuni esperti si vergognano o magari mettono da parte per quando si spogliano delle divise dell’intellighenzia d’ordinanza, anche le location più frequentate, da La Capannina a Cortina, dalla California a Londra, dalla Roma delle finte bionde o quella ricreata tra i templi e gli anfiteatri dell’antichità, trascendono l’aggancio con il gossip o la cronaca per essere trasportate nell’universo a parte che appartiene solo alla fantasia di chi ha accettato di pagare il biglietto degli inclusive tour nel segno godereccio con retrogusto amarostico delle “vacanzinate”. In quanto al cinepanettone, infine, è disonesto imputare ai Vanzina l’usura e l’ingaglioffimento del modello, non fosse altro perché i prototipi del 1983 “Sapore di mare” e “Vacanze di Natale” restano due capolavori di uno humour cinico e diretto, mai moralistico eppure non disposto a perdonare niente alla cafonaggine montante, oltre che –autentica medaglia al valore- non ancora sottoposto al letto di Procuste della nefasta voga del politicamente corretto. Caro Carlo ancorché con le lacrime agli occhi possiamo confermarti che non possiamo non dirci vanziniani.