Editoriali

Pubblicato il 6 Marzo 2018 | da Valerio Caprara

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La forma dell’Oscar

Al termine di un week-end alquanto tumultuoso, l’esito degli Oscar è diventato una notizia rapidamente archiviabile. E dire che nel quadro della continua emorragia della capacità d’attrazione dell’ex arte chiave del Novecento, un provvidenziale colpo di coda ha portato alla ribalta della massima vetrina mondiale un pugno di titoli finalmente capaci d’andare al di là delle diatribe tra strenui iniziati. Fatto sta che la notte delle stelle si è conclusa con la vittoria di La forma dell’acqua nelle due categorie principali, miglior film e miglior regia, senza trasgredire alcuna previsione, ma anche senza annichilire la concorrenza e candidarsi a cult-movie non solo di stagione. Si può essere concilianti con il verdetto, peraltro, per tre ragioni non trascurabili: l’Academy segnala stavolta al pubblico mondiale un modello cinematografico non modaiolo, in parte addirittura ricalcato sul cinema di serie B dell’età dell’oro hollywoodiana; lo stile di Del Toro non esegue una partitura univoca, ma ha il non comune coraggio di variare radicalmente i toni e il ritmo dal thrilling al fiabesco, dallo storico al romantico; risultando avvincente per ogni tipo di pubblico, può passare in secondo piano la metafora anti-Trump –peraltro rivendicata dallo stesso corpulento director messicano- del diverso, l’alieno, il “clandestino” a cui è doveroso spalancare le braccia.

Secondo noi i film più meritevoli erano Tre manifesti a Ebbing, Missouri e Il filo nascosto, solo il primo dei quali viene onorato a sufficienza grazie alla monumentale interpretazione da John Wayne in salopette della protagonista McDormand e quella del camaleontico non protagonista Rockwell. Aggiungendo in lode dell’ecumenismo d’annata che Oldman resterà un Churchill più vero del verosimile e che la Janney madre indegna di Tonya farà forse in modo che non si trascuri quest’ottimo film in procinto d’uscire in Italia. Si comprende e perdona il cine-patriottismo che induce a glorificare la statuetta per la migliore sceneggiatura andata all’ottantanovenne Ivory decisivo supporto dell’italica mano di Guadagnino. Nonostante il fatto che il manierato estetismo e la vacuità dei dialoghi di Chiamami col tuo nome tocchino persino il ridicolo quando il papà impartisce al Lolito l’ormai celebre pistolotto sessualmente corretto.

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