Pubblicato il 12 Novembre 2017 | da Valerio Caprara
0Good Time
Sommario: New York City, Queens. La notte brava di un gruppo di balordi ed emarginati.
3.8
Il noir al cinema non è sempre nero. In “Good Time” dei fratelli Safdie, che nessun appassionato del genere può assolutamente perdere, la tonalità predominante è quella dei neon rossi, verdi e blu che baluginano nella notte del Queens newyorkese, territorio remoto, pauroso, selvaggio in cui tutto può succedere ai loschi personaggi che lo percorrono rabbiosi e disperati come animali braccati. Lo stile survoltato di regia, chiaramente l’unico adatto a conformarsi alle facce deformate o devastate, le espressioni inebetite, i corpi offesi e martoriati, le battute e le imprecazioni scandite come in un rap connaturato all’habitat, contribuisce a pompare adrenalina in sintonia con l’ipnotica fotografia di Sean Price Williams e la musica elettronico-ossessiva di Oneohtrix Point Never; mentre il senso di un’urgenza arbitraria, irragionevole e funesta accompagna la fuga perenne dei fratelli Nick e Connie, quello autistico interpretato da Benny Safdie e quello balordo da un Robert Pattinson che ha abbandonato le pantomime di “Twilight” per rendere memorabile il ritratto di un malavitoso di mezza tacca capace di volgere in catastrofe qualsiasi faccenda intraprenda. I continui primissimi piani non sono, così, prodezze tecniche e se un po’ infastidiscono, fanno stare in ansia lo spettatore è proprio perché nel film è abrogata qualsiasi compiacenza, anche quella che potrebbe chiamare in causa i classici di strada di Scorsese (da “Mean Streets” a “Fuori orario”), Ferrara, Lumet, Friedkin.
Il panico vince sull’affetto fraterno, l’irruzione sul colloquio, il caso sullo stratagemma… E solo i versi gravi e minacciosi di Iggy Pop sono autorizzati, alla fine, a commentare il balletto scomposto di un’amante tarata, uno spacciatore sfigurato, gli infermieri neghittosi di un pronto soccorso di frontiera, un’adolescente ottusa avvinghiata al suo telefonino, nonne alquanto ripugnanti e biascicanti un inglese contaminato dal greco e dall’haitiano, il guardiano di un triste luna park che si rimette in moto quando non dovrebbe e forse rappresenta la metafora guida di un film cosparso di spine eppure così superbo.