Pubblicato il 31 Ottobre 2017 | da Valerio Caprara
0Giù le mani da Kevin!
Giù le mani da Frank Underwood. E giù le mani da Kevin Spacey, anche se sembra che sia lo stesso attore a cercarsi il martirio dopo essere stato accusato di avere molestato un ragazzino trentuno anni orsono. Le mine disseminate dal caso Weinstein rischiano, infatti, ogni giorno di più di trasformare il cortocircuito tra realtà e finzione in una catena di esplosioni a casaccio e il protagonista della serie tv “House of Cards” rischia d’entrare nel tritacarne mediatico come uno svilito brandello del proprio luciferino personaggio.
E pensare che una regista del glorioso (forse) ma poco redditizio (sicuramente) cinema italiano ha appena tenuto a dichiarare che le serie tv saranno anche sulla cresta dell’onda, ma non riusciranno mai a dimostrarci che hanno un’anima capace d’immedesimarsi negli spettatori. Sta succedendo, invece, il contrario e casomai gli ultimi mohicani della sala possono sostenere a buon diritto che la maturazione del linguaggio televisivo, quello che racconta storie prolungate e psicologicamente approfondite attraverso personaggi solidi e drammaturgie ardite, è il segnale che la potenza del grande schermo ha costretto il piccolo in qualche modo a dilatarsi. Come dimostra proprio “House of Cards –Gli intrighi del potere” che, dopo averlo reso un antieroe di culto, sta involontariamente scatenando contro quel sublime attore che è Spacey il tornado del contrappasso artistico, del revanscismo provinciale, dell’ipocrisia moralistica, del voyeurismo compiaciuto caro all’Hollywood Babilonia di sempre: anche se il fenomeno è, appunto, storico, non c’è dubbio che acquisti oggi una virulenza maggiore grazie anche alla capacità del migliore show sulla peggiore politica americana mai congegnato di cogliere lo spirito del tempo miscelando cinicamente premesse, tendenze ed esiti della vita pubblica e il dibattito politico d’oltreoceano del passato prossimo e del momento. In coppia con l’altro eccezionale personaggio di Claire Underwood, affidato alle mille sfaccettature e le mille dissimulazioni di un’attrice erede delle perfide lady anni Quaranta e Cinquanta come Robin Wright, Spacey ha confermato lungo cinque stagioni, in effetti, d’essere, l’unico divo in grado di potere rivolgersi direttamente allo spettatore senza annullare la suspense e persino di snidarlo con i suoi sguardi truci e i suoi sorrisetti beffardi dal riparo della visione casalinga. In questo senso non sorprende più nessuno il fatto che –pur condividendo successi, buone critiche e assortiti fanatismi con altri titoli come “Il trono di spade”- la serie tratta dai romanzi dell’inglese Michael Dobbs e concepita e prodotta in Usa da Beau Willimon è l’unica che può essere definita una fucina di aforismi tanto taglienti quanto provocatoriamente diseducativi: da “Di tutte le cose che ritengo importanti le regole non ne fanno parte” a “I soldi sono come ville di lusso che iniziano a cadere a pezzi dopo pochi anni; il potere è la solida costruzione in pietra che dura per secoli”, ce ne sono, come sanno milioni di fans, per tutti i gusti e soprattutto, va da sé, per coloro che non vanno tanto per il sottile in materia d’antipolitica e populismo.
NaturalmenteUnderwood non è certo un mostro circondato da angioletti perché le sue azioni ripugnanti – magari orinare sulla tomba del padre o sputare su un crocifisso- risultano perfettamente in linea con quelle dei signori & signore che si dedicano a soddisfare unicamente ambizioni personali, ancorché spalmate di reboanti dichiarazioni di nobili principi. Per i cultori più votati alla politologia, si potrebbe tentare un collegamento alto con le polemiche sul mercatismo o le teorie della Public Choice del premio Nobel James M. Buchanan, ma gira e rigira, secondo noi, il principio romanzesco di “House of Cards” si basa invece sull’archetipo scespiriano della paranoia del potere che per essere raggiunto non deve, ma può richiedere tradimenti, inganni e persino gli omicidi. Il clima del momento trova, peraltro, l’attrattiva maggiore nella messinscena delle esperienze erotiche che si spingono al di là dei confini del matrimonio e dell’identità sessuale: come direbbe Underwood, infatti, “Tutto nella vita riguarda il sesso, tranne il sesso. Il sesso riguarda il potere”. Resta un’ultima considerazione che suscita in surplus un imbarazzante sospetto: nelle ultime due serie l’offuscamento della personalità del nostro, che sembra talvolta diventato una sorta di vittima se non altro di se stesso, stride un po’ troppo con le sue malvagie caratteristiche vincenti. Il penoso outing via twitter di Spacey che ha chiesto scusa al ragazzino, decisosi a parlare perché “scosso” dal maxiscandalo dell’orco della Miramax, facendo chiarezza nel contempo sulla sua inclinazione sessuale passata da bisex a totalmente gay non è che rappresenti un’obliqua via di fuga dal terrore d’essere gettato nella fossa comune del neopuritanesimo politicamente corretto?