Pubblicato il 30 Settembre 2017 | da Valerio Caprara
0Ferrante Fever
Sommario: Il clamoroso caso editoriale "Elena Ferrante", contrappuntato dalle ridotte esternazioni della misteriosa scrittrice e ricostruito soprattutto negli ambienti letterari newyorkesi.
1.3
Dal punto di vista, per così dire, tecnico, il documentario “Ferrante Fever” di Giacomo Durzi, ideato e scritto insieme alla ricercatrice e critica Laura Buffoni e presentato in anteprima nazionale ieri sera al cinema Hart nell’ambito del Napoli Film Festival è senz’altro ben strutturato nonché coerente al proprio progetto narrativo. Dichiaratamente lettore appassionato di tutti i libri dell’hitchcockiana scrittrice “senza volto” Elena Ferrante e soprattutto fan convulsivo di L’amica geniale, il regista ha costruito una sorta d’inchiesta filmata sullo straordinario successo ottenuto dalla tetralogia in Italia, nel mondo e in particolare negli Usa con epicentro a New York. Ovviamente il punto di partenza è costituito dal fatto che dell’autrice, curiosamente diventata oggetto di culto popolare e quindi anche di boom commerciale sull’abbrivio dell’entusiastica promozione da parte di colleghi, ambienti, periodici molto snob e molto trendy, non si sa quasi nulla al di là dei natali napoletani e degli scarsi e sparsi elementi biografici raccolti nello zibaldone La frantumaglia. Altrettanto ovviamente il documentario ci tiene a rimarcare il netto rifiuto del gossip biografico, del gioco da salotto sull’identikit della matura signora che si nasconde dietro il ricco, vivido e palpitante materiale profuso nei suoi romanzi. Il necessario ingrediente creativo è, inoltre, fornito dalle sequenze d’animazione firmate da Mara Cerri e Magda Guidi nelle quali la silhouette della protagonista, attraverso l’appropriatissima voce di Anna Bonaiuto, fa balenare sentimenti ora tormentosi ora risoluti destinati, peraltro, puntualmente a convergere sulla decisione tutt’altro che ondivaga di restare nell’ombra per sempre: “fin quando continuerò a essere Elena Ferrante continuerò a scrivere, altrimenti non scriverò più”.
Il problema che rende, secondo noi, malfermo l’asse del documentario è che le copiose e prolungate interviste a importanti personalità –talvolta nemiche della suspense che pure in qualche modo si vorrebbe alimentare- non solo e non tanto risultano di livello diseguale, ma escludono perentoriamente qualsiasi opinione alternativa o dissonante, fosse anche per mettere in miglior luce l’approccio del narratore. Dalla venerata traduttrice Ann Goldstein a Roberto Saviano, da Francesca Marciano a Nicola Lagioia, da Elizabeth Strout a Jonathan Franzen il coro delle riflessioni –talvolta geniali, talvolta banali- non fa che intonare lo stesso refrain, rimarcare le stesse fenomenologie, esporre le stesse interpretazioni. Succede così –tra l’altro- che la monocorde valorizzazione dell’autenticità, il bisogno interiore e l’indifferenza alle strategie altrui (niente a che vedere, sembrano ripetere gli illustri testimoni, con Salinger o Pynchon) alla base dell’auto-occultamento ferrantiano finisca paradossalmente col celebrare il trionfo di una formidabile strategia mediatica –più o meno il contrapporsi a bella posta alla bulimia dell’apparire unanimemente deprecata quanto praticata- che ci si è tanto affannati a confutare. Le ragioni più valide per recuperare “Ferrante Fever” nei tre giorni (2-3-4 ottobre) in cui sarà disponibile nelle sale stanno, piuttosto, in qualche fuori campo estroso raccontato dai registi che ne hanno già trasposto alcuni romanzi, in qualche soprassalto degli intellettuali che li fa finalmente assomigliare ai minimi comuni lettori tenuti fuori dal corso principale del documentario e in qualche spezzata/spietata riflessione sulle proprie radici della virtuale protagonista che –deo gratias- non si fa minimamente condizionare dal funesto tormentone “fa bene o fa male all’immagine di Napoli?”.