Pubblicato il 14 Febbraio 2017 | da Valerio Caprara
0Toni Servillo poeta civile
Sulla sua bravura è superfluo esercitarsi anche nei più ingegnosi arabeschi elogiativi. Ma il fatto nuovo e rilevante è che quando il pubblico acclama Toni Servillo al calare del sipario in una delle trionfali repliche di “Elvira”, mentre sprofonda nel magma linguistico della visceralità napoletana in un teatro di popolo come il Nest o si raccoglie in un autentico raccoglimento davanti alla lettura delle pagine autobiografiche di Croce ormai percepisce in lui qualcosa di profondo e di destabilizzante che va oltre i meriti del rigore professionale.
Ancorché con la sua sincera repulsione per il divismo, infatti, l’attore si ritrova sempre più spesso a praticare un’essenza artistica capace di produrre insieme alle vibrazioni emotive uno choc sul pensiero e quindi di trasformarsi in una lezione di comportamento individuale e collettivo. I critici, com’è noto, sono giustamente gelosi delle proprie esperienze e le proprie competenze e non è quindi il caso di auspicare invasioni di campo sotto le insegne del moralismo e il pedagogismo dell’intellettuale fornito di una sorta di passepartout di servizio; quello di cui, però, può accorgersi il colto e l’inclita o anche chi venera il Jep Gambardella di “La grande bellezza” al posto del Louis Jouvet delle sette lezioni di recitazione alla giovane allieva è che la stessa figura di Servillo, la sua fisionomia e la sua postura così naturali e nello stesso tempo ieratiche, il pudore con cui s’immerge nei testi sia pure entrando quasi in trance con la platea lo rendono credibile nelle vesti di testimone positivo di un modo di stare al mondo, di poeta civile non manipolabile dalle comode retoriche di parte.
Non è in genere corretto né interessante per nessuno e tantomeno per i lettori esibire credenziali di conoscenza personale o di vera o millantata confidenza con le celebrities, ma in questo caso sembra indispensabile a chi scrive assicurare che le eventuali qualifiche di guru, talebano, ‘salvator mundi’ sono lontanissime dall’adattarsi alla personalità aperta, al carattere affabile e alla normalità del vissuto quotidiano di questo incantatore della scena. Tanto è vero che ci è capitato anche di non apprezzare affatto, sul versante che ci è più familiare, il valore di film come “Le confessioni” dove, cioè, gli è stato chiesto di cucirsi addosso un personaggio gravato sino al grottesco di simili caratteristiche messianico-redentoristiche. Il valore, per così dire, extra testuale di quella tensione a migliorarsi che sta prepotentemente emergendo dal suo fare (soprattutto) teatro sta, invece, nel rifiuto della banalità di comportamenti, sensazioni, visioni del mondo in grande, ma anche nel dettaglio minimo che assediano e avviliscono la nostra comunità di cittadini, al di là del libero e non omologabile conflitto degli scopi, le idee, i piaceri e i doveri. In apparenza una questione spirituale, ma in realtà estremamente pratica: come potremmo, infatti, interpretare se non come un’apologia di una passione violenta, rapinosa e materiale l’invito a non abbandonarsi all’approssimazione, alle scappatoie, all’esibizionismo del virtuosismo a sé stante anche e soprattutto quando si lavora per la più laica delle religioni, quella votata a cercare di disvelare quante più possibili tessere del misterioso puzzle delle condizioni morali e societarie, le lotte, le avventure, i sacrifici, le pulsioni alte o ignobili che una sola vita non potrà mai contenere né tramandare.
A pensarci bene è lo stesso fenomeno che si è prodotto pochissime altre volte anche in un gotha della messinscena, realistica e metaforica, come quello stratificato dalla storia e la tradizione nostrane: per una volta non sembrerà, forse, sciatto e dispersivo evocare quello che ha tramandato il magistero propulsivo universale di Eduardo o di Viviani. Non interessa tanto, infatti, accampare primati o piagnucolare sui torti subiti e sull’”immagine” di volta in volta beatificata o stuprata dell’odiosamata metropoli; quanto rivendicare, attraverso le opere e i giorni di un artista sin troppo esigente con se stesso e quindi autorizzato a chiedere di esserlo agli altri lo “spettacolo” di una napoletanità a molte facce, in grado d’immergersi e fare immergere nella carne viva dei suoi valori e delle sue piaghe senza scantonare nei ricorrenti illusionismi accattivanti e senza arroccarsi in cittadelle pseudo-rivoluzionarie.