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Pubblicato il 27 Settembre 2016 | da Valerio Caprara

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Francesco Totti. E così sia

Come se non fossero bastate le randellate di un ciclonico Toro (a proposito, che classe la standing ovation del pubblico per l’illustre veterano), ieri il sottoscritto ossessivo tifoso romanista ha dovuto subire anche quelle inferte dalla signora Blasi al già precario equilibrio di una società ormai gestita più con i bollettini della Borsa che con il fuoco della passione. Sembrerebbe ovvio prendersela con l’incauta showgirl e maledire la sortita inaspettata che riapre una ferita (almeno quella) apparentemente rimarginata, ma non c’è niente da fare: eccomi pronto ad arrestarmi un passo prima di precipitare nel baratro di un buon senso e una logica che a tutto possono applicarsi tranne che agli argomenti e agli umori in cui ci ritroviamo a navigare. In nome e nel segno del donchisciottismo che caratterizza ogni vero intossicato dichiaro, dunque, di rinunciare all’utilitarismo, lo spirito di convenienza e il calcolo spicciolo per proclamare urbi et orbi che se non ha ragione piena, Ilary non ha tuttavia sbagliato.

Certo, il sentimento più incalzante adesso è quello della malinconia per le inevitabili conseguenze di quest’entrata a gambe tese: saranno senz’altro più seducenti quelle di Ilary, ma hanno fatto male proprio come quelle di un truce terzinaccio. Nei ghirigori della mente che stanno subissando più del solito i doveri e i piaceri quotidiani già mi assediano, infatti, i fantasmi dell’autolesionismo e della litigiosità che spesso avvicinano le cronache di Trigoria al teatro dell’assurdo beckettiano: minimizzando le problematiche tecniche e tattiche, percorrendo la via crucis del nuovo stadio, impantanandosi nel braccio di ferro tra Curva sud e istituzioni dello Stato e distraendosi dai maneggi del suk Sabatini (il ds che compra, vende, presta, scambia giocatori ininterrottamente radendo al suolo un paio di volte all’anno la formazione base), i destini giallorossi saranno fatalmente d’ora in poi in balia della tempesta e l’impeto della lotta fratricida tra la proprietà, l’allenatore e il Capitano. Eppure sono tre gli argomenti che mi porto stoicamente sulle spalle senza avere ovviamente la pretesa d’imporli al lettore, specialmente se non direttamente interessato: l’assenza di un’ingerenza tecnica nelle dichiarazioni ostili al luciferino trainer toscano; la forza incoercibile dei rapporti personali; l’irrazionalità che, volenti o nolenti certi ridicoli esperti, governa il mondo dello sport professionistico e del calcio in particolare. Per chi le ha lette e rilette, infatti, le rampogne rivolte a Spalletti e per il buon peso anche al decisionista presidente bostoniano non entrano mai nel merito delle maglie da assegnare e delle gerarchie da rispettare; tutta la veemenza esercitata è rivolta, invece, contro la mancanza di tatto e di sensibilità messe in atto in momenti terribilmente delicati per l’uomo prim’ancora che per il numero 10. Lo scambio a cuore aperto con gli intervistatori, inoltre, si è svolto, appunto, a cuore aperto e di conseguenza oltre che legittimo, appare estremamente pertinente lo sfoggio nient’affatto superfluo o démodé d’amore coniugale. Infine sarebbe ora di abrogare il doppiopesismo con cui sia i media, sia gli appassionati (tralasciando quelli imbarbariti dal livore) trattano le questioni inerenti allo show più interclassista e universale: a volte sembra che tutto debba rientrare in una sorta di canone matematico, da sviscerare con delle formule da arcigni scienziati nucleari; tranne poi a calare a piacimento la mannaia che lo trasforma di colpo in paccottiglia e/o volgare vizio gossipari. Se mi sto arrampicando sugli specchi, non dovete peraltro giustificarmi. Perché senza prolungare oltre quest’affabile camouflage (c’è una dose di Bar Sport in ogni controversia similare e c’è una dose di filosofia in ogni controversia da Bar Sport), è giunta l’ora di spiattellare quanto pretende inesorabilmente il cuore. Spalletti, Pallotta & company avranno pure le loro ragioni, ma non hanno saputo o voluto collegare il peso di una così straripante personalità pubblica a quello dei valori incarnati a beneficio di una comunità non certo sazia e vincente di adepti disinteressati. Non capiranno mai, si parva licet, perché un canuto cinecritico generalmente scettico e razionale sia convinto che è stato fortunato a vivere quando Francesco Totti ha calpestato l’erba degli stadi.

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