Pubblicato il 20 Novembre 2010 | da Valerio Caprara
0La dolce vita 1960-2010
Al cinema italiano piace molto celebrarsi. Un’attitudine da condividere a occhi chiusi, se non fosse per la litania intonata d’ufficio da certi portavoce: il passato è sempre nobile, il presente sempre catastrofico. Restando nell’ambito delle doti artistiche, l’assioma, infatti, regge; ma se finissimo ogni volta per abbandonarci al piacere della classica tirata “o tempora o mores!”, rischieremmo di non cogliere il senso degli omaggi ai cinquant’anni di “La dolce vita” che si stanno moltiplicando in questi giorni. La notizia più importante è quella che il cult-movie di Federico Fellini, nella versione restaurata in digitale dalla Cineteca di Bologna su commissione della scorsesiana Film Foundation, sta tornando nelle nostre sale grazie all’iniziativa di Medusa Film e Mediaset. Le proiezioni –gratuite e replicate nell’intero arco della programmazione giornaliera- hanno già interessato molte città italiane e domani e dopodomani arriveranno al Martos Metropolitan di Napoli: “per consentire” come ha dichiarato Giampaolo Letta, “davvero a tutti di fruire sul grande schermo dell’attualità, della bellezza, della struttura narrativa di un capolavoro riconosciuto della cinematografia italiana. Sperando che riscoprano il film chi l’ha visto in sala tanti anni fa, chi l’ha potuto rivedere solo in qualche passaggio tv e soprattutto quei giovani spettatori che lo conoscono poco o non lo conoscono affatto”. A suggellare una settimana d’oro per i cinéfili di casa sarà poi l’evento “Addio cinquant’anni della Dolce Vita” (venerdì, ore 16,30 al Blu di Prussia di via Filangieri), protagonista lo scrittore e saggista Italo Moscati del quale saranno presentati e discussi, a cura di Imma Pempinello, sia il documentario “Via Veneto set” che il libro “Fellini & Fellini” edito da Ediesse.<br />Del resto è da un po’ che si accumulano incessantemente manifestazioni similari: dalle già inaugurate mostre fotografiche romane del Macro di Testaccio e Cinecittà-due arte contemporanea all’imminente e attesissima prima al Teatro Olimpico di “La Dolce diva”, musical affidato all’estro comico di Greg in coppia con Dirty Martini, indiscussa regina del burlesque newyorkese. Mettiamoci anche la causa intentata a Pier Silvio Berlusconi dall’ex ballerina Aiché Nana -che si è accorta solo oggi di essere stata diffamata dalla messa in onda del 2008 su Canale 5 della fiction “Vita di paparazzo”, in cui riviveva il famigerato strip-tease immortalato da Tazio Secchiaroli e ripreso da FF nel suo visionario vagabondaggio- e il quadro è completo, anzi scoppia. Il fatto più sorprendente, però, è quello che l’affresco “inventato dal vero” da Fellini, Flaiano e Pinelli e prodotto con 540 milioni dal duo Rizzoli-Amato (che ridussero a tre circa le quattro ore montate di pellicola) resiste a oltranza alla museificazione, non cede di un millimetro alla marea retorica, aderisce, anzi, alla sensibilità dei posteri per via linguistica prim’ancora che sociologica o culturale. In effetti, lo sguardo dell’autore sulla capitale alla fine dei Cinquanta (a tratti assimilata a una Babilonia precristiana) è reso incisivo come una lama dalla versatilità delle soluzioni registiche, dall’attenzione per la sfumatura che sostituisce la scorciatoia sentenziosa, dall’interesse concreto nei confronti dei personaggi anche (soprattutto) se patetici o disgustosi, da una cinepresa che si muove dentro e non sopra le azioni, dall’equilibrio, insomma, stabilito tra realismo cronachistico, schizzo beffardo e geometria compositiva.
Abbiamo premesso, in questo senso, che la forza di un capodopera sta nel sapere rendere epica la propria immediatezza, il proprio slancio espressivo. All’uscita del film è noto che divamparono le polemiche, si accese un aspro duello tra critici, politici, preti tradizionalisti o progressisti e una folla di opinionisti “esterni” e non ci furono neppure rose e fiori gentilmente offerti dal governo Segni (Umberto Tupini ministro del Turismo e Spettacolo). “La dolce vita” dopo quindici giorni di programmazione aveva già coperto le spese del produttore, dopo due mesi gli incassi avevano superato il miliardo e mezzo: un preciso segnale di quanto non fossero i tempi a risultare dolci e tranquilli né l’assistenza dello Stato ad agevolare la corsa verso una Palma d’oro a Cannes e un Oscar al costumista Piero Gherardi, bensì il talento non omologabile o schierato di Fellini a renderli avvincenti, esemplari, terribilmente densi e in qualche modo eterni.