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Pubblicato il 3 Luglio 2016 | da Valerio Caprara

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La morte di Michael Cimino

E’ davvero difficile crederci. Nello scorso agosto a Locarno, nel corso dell’accurata monografia allestita dal festival cinefilo per eccellenza, il grande regista americano era apparso sereno, felice della fervida accoglienza e soprattutto molto più in forma di quanto lo descrivessero da anni cinefili e cronisti che avevano l’occasione d’incontrarlo più frequentemente. Alquanto sbigottiti, ci ricordiamo in particolare della conferenza stampa che segnò il culmine della rassegna e sulla quale s’addensavano le più scettiche previsioni: è un intrattabile, ha un aspetto ormai indecifrabile, risponde alle domande a monosillabi, non concederà un minuto in più ai convenuti di quanto previsto dal programma… Una serie di previsioni letteralmente sbaragliate da un incontro che stava invece per rivelarsi tra i più intensi, spettacolari, indimenticabili della nostra annosa carriera di festivalieri…

Un fiume in piena, una voglia inarrestabile di raccontare e raccontarsi, una disponibilità alle domande inimmaginabile per altri cineasti della sua caratura. Michael Cimino, nato a New York da genitori originari dei laziali Monti Cimini, regista di appena sette titoli più un corto tra cui un cult-movie per antonomasia come « Il cacciatore » e morto ieri improvvisamente all’età di 73 anni era venuto a Locarno per ricevere il Pardo d’onore, ma in realtà era pronto ad esibirsi in uno show di spasmodico interesse cinefilo. Il suo « nuovo » aspetto, da anni oggetto di un’ampia gamma di commenti -da quelli perplessi a quelli scandalistici e a quelli sarcastici-, appariva solo quello di un signore minuto, fragile e vagamente malfermo, con l’espressione semicoperta dagli occhiali scuri, sormontata da una pettinatura a caschetto modello parrucca e resa simile a quella enigmatica di un orientale da ingenti interventi di lifting. Dopo un’ora e mezza abbondante di scambi dialettici, però, nessuno ci faceva più caso e dovettero intervenire gli addetti stampa per costringerlo a interrompere il feeling stabilito con la platea. Michael (« chiamatemi solo così ») ripercorse, in effetti, la sua accidentata strada di genio ribelle senza reticenze o lamentele vittimistiche : « Invece di scattare fotografie o tuffare la faccia nel portatile, guardatemi e statemi a sentire maledizione! I film hanno bisogno come di un’anarchia controllata e farli comporta un’impresa pressoché sanguinosa>. Per comprendere la statura dell’ex studente d’architettura e pittura nonché laureato in Arti grafiche alla Michigan State University, basterà premettere che tutto il cinema americano contemporaneo “adulto” , comprendente anche i migliori esiti delle serie tv linguisticamente rivoluzionarie, deve alla sua personalità anticonformista e al suo genio visionario non tanto la primogenitura, quanto la possibilità stessa d’esistere e tramandarsi all’immaginario collettivo. Se facciamo il nome di Tarantino, la discendenza sembrerà quasi scontata; ma, in realtà, la storia va decrittata con molta più finezza perché mentre l’ingordo mangiapellicola di Knoxville è diventato subito un beniamino della critica, ha viaggiato sull’onda del consenso degli spettatori e ha ottenuto riconoscimenti in tutti gli ambiti della macchina del cinema mondiale (mode & mondanità comprese), Cimino ha sfidato il bigottismo di Hollywood da cavaliere solitario, s’è preso per anni gli insulti canonici di “fascista”, ha volato alto con la sua umiltà di semplice storyteller, raccontatore di storie, e non si è mai circondato dalla rete di protezione delle conventicole politicamente corrette egemoniche e virulente non solo in Europa, ma anche oltreoceano.

Non appare, in effetti, casuale il suo primo connubio artisticamente fecondo, quello realizzato con Clint Eastwood per il quale scrive e dirige “Una calibro 20 per lo specialista” (1974): un noir feroce, crudele, stralunato che mette sulla strada senza ritorno del crimine un veterano e un novellino senza concedere nulla alla pietà sociologica o alla routine paesaggistica. E’ chiaro, però, che la meritata fama di Cimino si basa, soprattutto presso il grande pubblico, su “Il cacciatore” (1978) che vinse cinque Oscar su 9 nomination, ma resta uno dei vertici della storia del cinema a dispetto delle incredibili sottovalutazioni subite a causa della libertà poetica assoluta con cui s’immerge nel cuore dell’America straziato nei suoi valori fondativi dalla sindrome del Vietnam. Un cult-movie nient’affatto pacifico e accomodante, insomma, che può anche servire a smascherare ancora oggi un tipo di approccio al cinema succube dei pregiudizi politici (il vieto tic dell’antiamericanismo “a prescindere”, per esempio), innamorato della decrepita concezione del cinema d’arte e d’essai e impermeabile alle mitologie epiche che, al contrario, ne determinano il dna. In “Il cacciatore” fiammeggia in ogni inquadratura, in ogni sequenza, in ogni sguardo, gesto o battuta dei titanici personaggi e dei rispettivi interpreti l’eroismo inconsapevole e per questo più commovente dei proletari americani che combattono nell’inferno della giungla senza aspirare agli onori militari o soggiacere al gusto di uccidere, bensì per arrivare alla conoscenza di se stessi e a un barlume di dignità per cui sopravvivere.

Come molti ricordano, il successo gli consente di girare due anni dopo con un budget eccezionale per l’epoca “I cancelli del cielo”, un western antagonistico dalla smisurata durata (in seguito drasticamente ridotta) fotografato sublimemente da Vilmos Zsigmond che si rivela un’opera vertiginosa, pletorica, forse imperfetta, ma eccezionalmente aspra, anticonformista, struggente. A proposito di questo clamoroso flop che di fatto lo rovina e lo relega ai margini del sistema, Cimino a Locarno non ebbe peli sulla lingua: <Non mi sono mai pentito dei 36 milioni di dollari che dicevano avessi sprecato per fare « I cancelli del cielo » . Intanto qualcuno dei produttori che lo massacrarono è morto, io sono ancora qui>. Per fare capire meglio chi è stato Cimino, proprio nello stesso frangente gli fu chiesto un parere su Sam Peckinpah, il nichilista di Hollywood, il poeta dei magnifici perdenti del nuovo (o ultimo) western di « Sfida nell’Alta Sierra » « Il mucchio selvaggio » e « Pat Garrett e Blly the Kid » che secondo noi gli ha trasmesso il carisma: «Ho avuto la fortuna di conoscere ‘Bloody Sam’ di persona e ho amato senza riserve quell’uomo selvaggio, folle e infine tristemente autodistruttivo. Per il suo immenso talento e la sua grinta creatrice, certo, ma soprattutto per la sua natura d’autentico westerner, lontano mille miglia, come John Ford e pochissimi altri, da quelli finti spesso in auge a Hollywood. Lo hanno tacciato di fascismo ? E che problema c’è, anch’io sono stato definito omofobico al primo film, di destra al secondo, marxista al terzo, razzista al quarto e cosî via… Ma io non reagisco mai e non leggo le recensioni né buone né cattive. Anche « American Sniper » è stato odiato da alcuni in quanto bellicista e patriottico. Ma la verità è che non hanno capito un tubo del mio amico Clint e soprattutto non sanno che i film di guerra realizzati con integrità non possono che risultare intimamente, inequivocabilmente contro la sua spietatezza scatenata dai vecchi, ma di cui i giovani pagano per intero il cinico prezzo ». La strada è diventata ormai impervia: tra l’85 e il ’90 il ripudiato può esprimersi solo con “L’anno del dragone”, che riesce a fare sprigionare straordinarie scintille di cinema dall’abbinamento impossibile tra la sua nichilistica visione del thriller e gli imperiosi diktat del produttore Dino De Laurentiis;   “Il siciliano”, versione delle gesta di Salvatore Giuliano ispirata a una folle, ossessiva, veemente inverosimiglianza storica, ma insieme a una rilettura romanzesca di Mario Puzo assai meno banale di come fu giudicata e il remake di “Ore disperate” riuscito sul piano del climax claustrofobico e angoscioso, ma non altrettanto su quello della psicopatologia metaforica dei personaggi. Dopo anni d’incomprensibile silenzio, si dovette attendere un giorno di maggio del 1996 perché nel concorso di Cannes tornasse a manifestarsi il segno del genio assoluto: ricordiamo ancora quella mattina spalmata di terso azzurro, gli sguardi di complicità scambiati correndo verso la proiezione anticipata di “Verso il sole” con i giovani colleghi frementi di suspense proprio perché liberati -anche grazie a noi adepti della prima ora- da tante ottuse ostilità e soprattutto come il film ci apparve subito un capolavoro. Solo il tormentato “anarchico di destra” (come lo definivano con sospettoso, ma a suo modo coraggioso rispetto Kezich e Morandini, in barba al clan della critica benpensante) poteva profondere, rincorrendo la fuga di un delinquente meticcio morente e del suo oncologo prima ostaggio e poi complice verso il “luogo dell’aquila”, la montagna sacra ai navajos, un’energia narrativa così impregnata d’amore per le radici mitopoietiche dell’America. Il resto del suo cammino, come adesso sappiamo con definitiva malinconia, è stato solo la prosecuzione di una persecuzione artistica.

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