Recensioni

Pubblicato il 9 Giugno 2016 | da Valerio Caprara

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In nome di mia figlia

In nome di mia figlia Valerio Caprara
Soggetto e sceneggiatura
Regia
Interpretazioni
Emozione

Sommario: Ricostruzione accanita e accurata di un episodio di malagiustizia in Francia. Il protagonista Auteuil più "vero" della verità cronachistica.

2.5


E’ utile premettere che In nome di mia figlia rientra nei canoni di un paio di generi per cui il pubblico ha sempre dimostrato interesse, il film-inchiesta e quello giudiziario. Non a caso il regista francese Garenq ha acquisito una discreta fama grazie a titoli come Présumé coupable e L’enquete che rientrano appieno nella tradizione nazionale dei Clouzot e dei Cayatte; anzi, in particolare, richiamano il tipico taglio di quest’ultimo che tra i ’50 e i ’60 suscitava scalpore perché –al contrario del courtroom movie all’americana- metteva polemicamente in dubbio il corretto funzionamento della cruciale istituzione democratica (Giustizia è fatta, Siamo tutti assassini). E proprio su questo tasto, purtroppo ricorrente ma oggi surclassato da problematiche ancora più roventi, ruota la metafora portante della trama: la lotta del minimo comune cittadino contro il formalismo esasperato e gli accomodamenti diplomatici che finiscono troppo spesso per proteggere il sopruso o addirittura sancire l’ingiustizia.

Chi sceglie questo tipo di film non può augurarsi, in effetti, molto di più di tre componenti positive: la precisione e il ritmo della messinscena, l’aderenza e il valore degli interpreti e il plusvalore di un’originalità autoriale. Per quanto riguarda la prima, Garenq procede senza intoppi: la narrazione risulta lineare e sintetica con la vita felice della famiglia Bamberski dolorosamente interrotta dalla scoperta della relazione adulterina della moglie Dany (M.-J. Croze) con il medico tedesco Krombach (S. Koch). Il vero calvario del capofamiglia, il mite e probo commercialista André (Auteuil), inizia però nel luglio dell’82, quando a Lindau sul lago di Costanza una terribile disgrazia colpisce la figlia quattordicenne Kalinka mentre è in vacanza con la madre e il patrigno. Da questo momento il film insegue senza abbassare la tensione o mancare un dettaglio l’incredibile odissea che attraverso quasi trent’anni di battaglie legali, psicologiche, fisiche, legali e persino criminose accompagnerà la terribile convinzione di André… Una sfida monotematica notevole che punta tutto, ovviamente, sul protagonista in cui s’incarna con stupefacente naturalezza e credibilità quell’attore di caratura superiore che è Auteuil: dalla pena che devasta al rovello del dubbio, dalla suspense dei referti alla ricerche delle prove, dalle vittorie alle beffe in udienza, l’attore riesce a trasmettere senza cedere al più impercettibile scatto istrionico la “normalità” di un’ossessione e viceversa. Una volta giunto, però, sul terzo gradino, il film mostra inaspettate debolezze e rivela quanto gli manchi lo sguardo a 180 gradi di uno Chabrol o di un Egoyan, maestri delle inquietudini umane e societarie che trascendono la congruità dei materiali documentali. Nonostante Auteuil, insomma, il fittissimo contorno dei riscontri rischia a poco a poco di perdere la tensione stilistica in favore di quella cronachistica e di lasciare l’impressione finale di un film onesto quanto superfluo.

In nome di mia figlia

Regia: Vincent Garenq

Con: Daniel Auteuil, Sebastian Koch, Marie-Josée Croze, Christelle Comil

Drammatico. Francia/Germania 2016

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