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Pubblicato il 22 Aprile 2016 | da Valerio Caprara

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Roma-Torino: Francesco Totti come Django?

20 aprile 2016, stadio Olimpico di Roma, le 22,50 circa, una partita di calcio è finita, la squadra di casa ha vinto. Giusto, ingiusto, interessante, irrilevante… che importa. Il fatto inaudito è che una moltitudine di persone normali – o quasi normali, la passione sportiva non dispensa certezze – mercoledì scorso hanno avuto la percezione di avere assistito a uno spettacolo incredibile, una rappresentazione mitopoietica, magari la proiezione di un classico da cineteca. E il bello è che, se non si vuole né si deve pretendere che questo film realistico e insieme fiabesco diventi un patrimonio della propria vita come avverrà per il pubblico di parte, è impossibile soprattutto per i cinefili non ritrovarci disseminati alcuni degli stereotipi fondativi dei generi epico e thrilling, tra i più duraturi da quando i Lumiére e Méliès regalarono alle masse l’ex arte chiave del Novecento.

Una questione di sceneggiatura, innanzitutto: come non accorgersi, infatti, che la mano ignota che si è sbizzarrita a mettere in scena l’evento calcistico deve avere conosciuto sino alle virgole “Il viaggio dell’eroe” di Chris Vogler? Un saggio in cui l’autore dimostra come siano sopravvissute all’usura del tempo e delle mode le teorie del mitologista Campbell, convinto che le leggende archetipiche tramandino l’inconscio collettivo della razza umana e i relativi personaggi ricorrenti rappresentino le mappe della nostra psiche.

Senza volerla mettere sul difficile, è altresì evidente come tutti i ruoli dei nostri film preferiti si siano materializzati nella trama di Roma-Torino

C’era una volta l’AS Roma, una cittadina smarrita, impaurita e in preda alle lotte intestine come in “Mezzogiorno di fuoco” e c’era il vecchio eroe Francesco Totti tradito, ferito, occultato, scacciato come nei prologhi di “La sfida del samurai“, “Per un pugno di dollari“, “Il cavaliere della valle solitaria“, “Django” e “Il cavaliere oscuro – Il ritorno” o costretto all’esilio dall’età avanzata come il maestoso Eastwood di “Gli spietati“. Aleggiava lo spirito dello spietato ranchero (Jesse) James Pallotta, interessato solo all’espansione delle proprie ricchezze e del proprio dominio, mentre incombeva il ghigno tra il pauroso e il protervo di Lucky Luciano (Spalletti), il forte ma cinico cowboy messo a guardia del suo bestiame umano. Mano a mano che l’attesa del treno – più o meno la sconfitta in casa, che per i tifosi italiani è più minacciosa del fatidico percorso di “Quel treno per Yuma” o dell’imminente arrivo della locomotiva a vapore in “C’era una volta il West” – si faceva spasmodica, altro che neorealismo: è diventato chiaro come la cinepresa fosse passata nelle mani di Sir Alfred Hitchcock, l’attentatore delle coronarie di alcune generazioni di spettatori inchiodati alle loro poltrone.

Mancavano solo, dunque, quei minuti fatali, quello shock catartico che custodivamo – senza peraltro crederci sino in fondo – in memoria di “La pistola sepolta“, “Rocky” o “RevenantRedivivo“. Senza arrivare a immaginare che il bistrattato campione potesse persino incarnarsi in un’icona tarantiniana (“Sono Wolf e risolvo problemi“): così lo showdown si è compiuto e il Capitano (oh Capitano…) ha sigillato il verso-chiave di “L’attimo fuggente“. Si capisce, certo, che non tutti possano distillare a questo punto il sentimento travolgente provato dall’enclave giallorossa, ma è ancora l’istinto dei cultori a indicarci il meccanismo giusto: il pistolero richiamato in servizio a dispetto dello sceriffo pusillanime non è un santino bensì un personaggio tosto dall’aria strafottente, non si esprime come i damerini di Washington, dalla sua bocca partono troppi “fuck” (o “vaffa” nella versione doppiata a casa nostra) e il suo passo s’è fatto un po’ ondeggiante come quello di John Wayne nell’inquadratura finale di “Sentieri selvaggi“, ma è esattamente in quest’umanità imperfetta illuminata dal talento che risiede il suo carisma. Come nel sottofinale di “Il buono, il brutto e il cattivo“, grazie anche al doping della musica sublime del maestro Morricone, è in un cimitero di speranze che la sua pistola si è rivelata ancora una volta (l’ultima?) infallibile.

Gli altri membri mascherati da atleti della banda lo hanno sommerso d’abbracci, ma le panoramiche ideali disegnate dalla misteriosa cinepresa hanno giustamente riservato il lieto fine di “Voglio la testa” non “di Garcia”, bensì di Lucky Luciano agli iscritti al cineclub della ‘Maggica‘. Però per tutti i partecipanti al duro e insondabile match denominato vita, quell’esplosione d’adrenalina costituirà un patrimonio prezioso e condivisibile: i buoni “film”, magari proiettati sul maxischermo di un prato verde, ci fanno sentire di avere avuto un’esperienza soddisfacente e completa e al dolceamaro momento del the end ci lasciano la sensazione di avere imparato qualcosa d’imprescindibile su noi stessi.

Qualora, infine, i puri e duri diranno indignati che questa non è materia concreta e/o veritiera, sarà facile rispondergli come nell’epigrafe del capodopera fordiano “L’uomo che uccise Liberty Valance” (o Giampiero Ventura se siete maramaldi): “Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda“.

dal Mattino del 22/4/2016

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