Pubblicato il Febbraio 4th, 2016 | da Valerio Caprara

The Hateful Eight

The Hateful Eight Valerio Caprara
Emozione
Qualità
Scrittura
Recitazione
Musica

Sommario: Un grande film con grandi difetti.

3.8


Un grande film con grandi difetti: non a caso uno degli aspetti più clamorosi di “The Hateful Eight” sta nel fatto che nel momento stesso in cui s’evidenziano quest’ultimi, può sembrare di starne illustrando i pregi.

Tarantino si conferma un narratore superpotente, su questo non ci sono dubbi, ma la serie di trappole –alcune evidenti, altre occulte, altre ancora contorte- disseminate nel corso di questo trapianto a cuore cinefilo aperto del western (classico e revisionista) in giallo claustrofobico finiscono per costringerlo a colluttare con se stesso, per uscirne artisticamente vivo.
Non parliamo dei critici che si scoprono non tanto divisi – fenomeno nel suo caso ricorrente – quanto aizzati alla caccia trafelata di citazioni, paragoni, spiegazioni ed esibizioni di cultura generale e specifica. Pensiamo allo spettatore che, per fare solo un esempio, dopo essere stato illuso dalle grandiose aperture sull’inverno del Wyoming, riprese con l’ormai desueto Ultra Panavision 70, si ritroverà sequestrato per quasi tre ore in compagnia degli otto (più uno) odiosi del titolo nell’unico ambiente semibuio di uno sperduto trading post.

Una diligenza che si fa largo tra la neve con a bordo il boia, la prigioniera, il maggiore nero nordista e il nuovo sceriffo. Un ”emporio di Minnie” dove il quartetto è costretto a rifugiarsi e a coabitare mentre infuria la tempesta con l’inglese, il generale, il messicano e il cowboy. L’ambiguità si taglia a fette: assassini, aguzzini, razzisti, nessuno può fidarsi dell’altro.
Sei capitoli – o meglio atti – collegati in un crescendo rallentato, che nonostante il cast eccellente (Samuel Jackson e Jennifer Jason Leigh su tutti), lo humour nero, le musiche di Morricone (più delle quali, però, secondo noi primeggia la canzone sui titoli di coda del mitico Roy Orbison), i dialoghi zeppi di bluff e sottotesti, rischia di risultare assai noioso, tanto che quando i personaggi iniziano ad abbattersi è quasi un sollievo perché smetteranno di sproloquiare finalmente.
Ammesso che è contraddittorio lamentarsi di quello che in fin dei conti siamo venuti a cercare in sala, si nota come il Frankenstein del cinema postmoderno, diventato sinonimo di violenza sullo schermo, risulti stavolta più efficace quando la mantiene strisciante e minacciosa nell’estenuante avvicinamento ai fuochi d’artificio finali.
La vendetta si serve splatter e persino la moritura (ispirata a un’adepta del clan Manson) presa a cazzotti e sputi in faccia ha in serbo qualcosa di più belluino dell’ingannevole pausa di una performance alla chitarra.

Tarantino sente e ci fa sentire troppo il peso della scommessa di volere raccontare quanto brutta, sporca e cattiva sia stata davvero l’era dei cowboy, facendo credere che sta guardando più a “Dieci piccoli indiani” che a John Ford; quando, invece, nell’orchestrazione del puzzle rientrano come sempre le metafore ossessive e le mitologie personali. Tra queste spicca la figura del ‘negro’ che sguazza in orribili flashback, ma custodisce come una reliquia una lettera autografa di Lincoln chiaramente riferibile alla celebre epigrafe di “L’uomo che uccise Liberty Valance”: “Qui siamo nel West, dove se la leggenda incontra la realtà, vince la leggenda”.
Da delusi, infine, potremmo come abbiamo premesso trasformarci in sostenitori quando il regista, nel suo inconfondibile stile feticista, produce lo scatto con cui si libera del gioco di trompe-l’oeil e flashback per abbandonarsi a quel matto e disperatissimo amore per il cinema multigenere, che lo rende un alieno nel pianeta di ghiaccio del cinema del Duemila.

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