Pubblicato il 30 Dicembre 2015 | da Valerio Caprara
Hunger Games – Il canto della rivolta parte II
Pensiamoci. Mentre, per restare nell’attualità, sull’ultima ”americanata” di 007 chiunque si sente incoraggiato a timbrare il cartellino del giudizio, su “Hunger Games” le reazioni si fanno subito compunte. E ora che la saga “young adult” si conclude con “Il canto della rivolta – Parte 2” è ancora più facile spiegarsene il perché: bello o brutto il film ha già vinto e non solo, com’è scontato, grazie ai fan in ginocchio, ma soprattutto perché ha dimostrato a sufficienza che un blockbuster con una ragazza figa e tosta nel ruolo di protagonista può trionfare al box office. Bonus socio-politico-psicologico a parte, non siamo lontani dall’indifeso e indifendibile “Twilight”. Al circospetto neo-femminismo di Katniss, incarnata nelle fattezze paffutelle della Lawrence ritenute magnetiche da milioni di coetanee, importa ben poco, infatti, che su 2h17 spicchi una sola possente e prolungata –ancorché debitrice di svariati precedenti- sequenza d’azione e che dal contorno verboso e sentenzioso non emergano al the end né un grande melò, né un grande film di guerra, né una riuscita combinazione tra i due generi. Per non parlare di come anche i colpi messi a segno (la suggestiva visione art déco di Capitol oppure l’epica colonna sonora di J. N. Howard) siano subito frustrati dalle reiterate e alquanto asessuate scaramucce amorose messe a carico del triangolo Katniss/Peeta/Gale.
Il fatto è che il congegno dell’operazione non si pone affatto sul piano del consueto show d’effetti speciali, ma sembra piuttosto la replica dilatata di un qualunque videogioco, del suo modello narrativo e della sua meccanica progressione. Un gruppo d’insorti guidati dall’indomita arciera avanza, infatti, verso il cuore della cittadella del potere, via via affrontando micidiali ostacoli (ovvero livelli di gioco) per arrivare infine al colpo di scena finale e acquietarsi nell’infinita stucchevolezza del finale bucolico. Proprio da questo punto d’osservazione risulta per noi confermato come l’intento pedagogico costituisca una specie d’impalcatura dietro a cui mascherare l’anonimato stilistico e l’insignificanza drammaturgica: ulteriori rovelli della ragazzotta in gamba risiedono nel fatto che cercando di sfuggire al sistema fascista e consumista di Snow, sta rischiando di cadere in un’altra trappola, quella tramata dalla “cara leader” dai capelli grigi e l’uniforme simil-sovietica Julianne Moore altrettanto cinica e manipolatrice. Ne scaturisce il messaggio low cost a non fidarsi mai delle immagini, soprattutto quelle degli spot tv, a sostituire il conclamato dualismo bene-contro-male con quello verità-contro-menzogna (è una parola…) e a rigettare gli ammonimenti dei presidenti alla Snow sugli attacchi che sono “al nostro modo di vita” e sulla conseguente necessità di compattare un fronte unico contro il pericolo del caos. In questo contesto concettualmente ambiguo e produttivamente stereotipato i giovani bellimbusti deambulano assicurando un servizio interpretativo minimo, impermeabile ad autentiche emozioni; diventa dunque obbligatorio ringraziare, anche nell’interesse degli adepti di “Hunger Games” costi quel che costi, l’incredibile presenza dell’ottantenne Sutherland, eccezionalmente intonato all’evoluzione prima sinistra, poi agghiacciante e infine patetica del proprio personaggio.